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Il paradosso di Ippocrate 1
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Il paradosso di Ippocrate

16,15€

Romanzo noir. Un biglietto nascosto in un libro, una pediatra è invitata a unirsi a un’associazione segreta che combatte la corruzione negli ospedali, durante un congresso a Roma. Manager di aziende medicali si contendono il mercato della sanità; medici divengono vittime di un mistero che si infittisce.

Disponibilità: 1 disponibili

EAN: 9788897382584 COD: 9133 Categorie: Amando noir, Catalogo Tag: medical thriller, romanzi gialli italiani, romanzo giallo, romanzo noir
  • Descrizione
  • Informazioni aggiuntive
  • Brand
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  • Recensioni (3)

Romanzo noir

Cosa potrebbe spingere Diana Palmieri, pediatra per vocazione e donna dalla condotta irreprensibile, a venire coinvolta in una lotta all’ultimo sangue contro i poteri che governano il mondo ospedaliero? Il caso forse, ma soprattutto la rabbia, il senso del dovere, l’etica professionale, o anche l’incontro con Andrea Barson, ambiguo manager di una azienda di medicali. Appassionato di musica grunge e con una ossessione per la cultura nipponica, Barson incarnerà tutta la profonda sete di giustizia di Diana, frustrata dall’impossibilità di svolgere il proprio lavoro al meglio a causa dell’incapacità e della corruzione del sistema decisionale della sanità. Christopher Boyle, l’AD di una multinazionale, manovra i fili dall’alto, killer professionisti inseguono, un’associazione segreta promette soluzioni a medici dediti alla causa. Affiancata da Donita, fedele amica, goffamente sopra le righe, Diana sarà messa di fronte a una ridefinizione delle coordinate etiche del suo giuramento. Il Paradosso di Ippocrate è un romanzo che si nutre delle contraddizioni tra missione del medico e mondo commerciale, universo femminile e maschile, adolescenza e maturità, amore e passione. E il lettore che si chiederà come si sarebbe comportato al posto di Diana, potrebbe scoprire di non essere più tanto sicuro delle proprie risposte.

«Leggi qui: Giuro di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente. A vederti ora con una pistola in mano non si direbbe.»

Intervista a Nicola Gervasini su TomTomRock di Marina Montesano

Presentazione romanzo Il paradosso di Ippocrate di Nicola Gervasini presso la Biblioteca di Varese 29 09 2022, video a cura di Rete55.

Prezzo di copertina

€ 17,00

In copertina

Trust in me, opera grafica di Cirkus Vogler

Pagine

244

Lingua

Italiano

Genere letterario

romanzo noir, medical thriller

Ambientazione

Roma

Brand

Nicola Gervasini

Nicola Gervasini Nicola Gervasini (Varese, 1972) ha scritto regolarmente di musica dal 1992 per varie testate e siti web di settore (Mucchio Selvaggio, Il Buscadero, Rootshighway, FilmTV, TomTomRock). Nel 2009 il suo racconto La Pistola ha ottenuto la Menzione Speciale della Critica al Concorso Quaderni Rock del MEI. Nel 2010 ha pubblicato Rolling Vietnam – Radio-grafia di una guerra (Pacini Editore), saggio storico vissuto tramite le canzoni che hanno raccontato la guerra del Vietnam. Nel 2017 esce Musical 80 (WLM) indagine del Commissario Manfredi nel mondo dei musical. Il paradosso di Ippocrate (WLM, 2022) è il suo secondo noir.

Anteprima

Non abbiamo mai perso il controllo

Sei faccia a faccia

Con l’uomo che ha venduto il mondo

      David Bowie – The Man Who Sold The World

 

 

 

IL SENTIERO DEL TEMPO

 

Inseguiamo bugie stampate male

Affrontiamo il sentiero del tempo

Eppure, combatto

      Alice In Chains – Nutshell

 

 

Il foglietto, sfuggito dalle pagine di un vecchio libro di anatomia umana, si affrettò a cercare riparo sotto la libreria. Diana lo vide con la coda dell’occhio, ma non riuscì a identificarne il contenuto.

I soliti appunti dimenticati all’indomani di un esame pensò distrattamente, seguitando a rimanere sulla scaletta, e a spolverare quel ripiano pieno di libri universitari. Un immenso ammasso di carta che da più di quindici anni richiedeva cure e pulizie senza dare in cambio più nulla del suo sapere.

Cercò di ritrovare in quei titoli i ricordi di notti al caffè e appelli da rispettare, ma ogni volta si sentiva troppo distante da quei giorni per poterne riassaporare l’umore. La infastidiva anche solo sentire i colleghi parlare degli anni dell’università come dei propri anni ruggenti, quando per lei erano stati più che altro una fastidiosa e lunga parentesi prima di potersi costruire la propria soddisfatta esistenza. Eppure, non si era mai voluta sbarazzare di quella letteratura ormai superata dal tempo, quasi che quelle pagine costituissero l’unico collegamento rimasto tra l’oggi e uno ieri che non aveva mai troppo amato.

Si affrettò dunque a finire il lavoro, scese dalla scaletta, e la riposizionò esattamente come Riccardo l’aveva lasciata. Poi si levò i guanti di gomma, bevve una sorsata di acqua dal rubinetto della cucina, tornò nel salotto e si gettò sulla poltrona, arpionando esausta il telecomando. Tutti gesti che ripeteva ogni sabato mattina, seguendo un copione prestabilito.

Bastarono quattro canali di nulla per farle riapparire l’immagine del biglietto che s’infilava sotto il mobile. Spense il televisore, si rialzò, si avvicinò alla libreria, e s’inginocchiò per recuperarlo. Quando finalmente lo raggiunse, non senza difficoltà e con il pensiero che certi movimenti cominciavano a darle noia alla schiena, notò subito una carta azzurra non abituale per i suoi fogli di appunti. Lei non avrebbe mai affidato la sua conoscenza a una carta di quel colore così frivolo, ne era convinta. Per cui non si trattava di appunti. Fece di nuovo gravare il suo peso sulla poltrona, aprì il foglio, e il risaputo copione delle pulizie settimanali introdusse un inaspettato colpo di scena.

 

Ciao,

mi chiamo Andrea, e in questo momento ti sto osservando.

Della lezione di anatomia non posso curarmene perché io sono iscritto a Economia, ma stamattina, mentre mi dirigevo in università, ti avevo proprio davanti. E ho così avuto modo di fissare le tue spalle, il principio dei tuoi seni perfettamente delineato, le tue caviglie meravigliosamente tornite. Caviglie che non smetterò mai di sognare, bellissime.

Perdonami se ti sembro un maniaco. Mi sono solo innamorato di una forma, e ho deciso di dedicare la mia giornata a quella. Se ora tu leggendo questo biglietto ti girassi, potresti riconoscermi. Magari anche tu mi hai notato. Oppure ti verrà paura e chiederai all’amica al tuo fianco di girarsi e descriverti chi c’è due file dietro a voi, che faccia ha, se le pare un malintenzionato. Oppure ti alzerai e abbandonerai la lezione scappando. O, ancora più semplicemente, straccerai il biglietto perché le mie ossessioni non ti interessano.

Qualunque cosa tu decidessi di fare, lo farai muovendo le scapole, e le tue caviglie ricominceranno quell’entra-esci che mi fa impazzire. E io sarò comunque felice. Scusa se te l’ho voluto dire, ma sappi che i tuoi movimenti oggi hanno appagato una persona che sta ancora cercando la grazia assoluta in natura. E oggi l’ha finalmente trovata grazie a te.

Andrea

 

Diana lesse più volte quelle parole. Vagò con la mente cercando punti di approdo che le restituissero qualche risposta, anche solo qualche indizio che l’aiutasse a ricordare, ma alla fine fu certa: lei quel biglietto non lo aveva mai visto prima.

Non poteva essere sicura che fosse proprio indirizzato a lei. Non ricordava nessun Andrea della facoltà di Economia di Pavia, e soprattutto non si riteneva certo il tipo di ragazza che ispirava un messaggio del genere. Però era nel suo libro che l’aveva trovato. Provò a immaginarsi circa quindici anni prima davanti a quelle parole. L’avrebbe presa male, esattamente come ora riusciva solo a sentirsi offesa e sconvolta.

Avrebbe subito pensato che questo Andrea non fosse neanche classificabile come un maniaco. Era solo uno di quegli stronzi sicuri di sé, il genere di uomo che, con due complimenti e qualche allusione sessuale falsamente ammantata di poesia, crede di poter far cadere una donna ai propri piedi.

Senz’altro chi le aveva scritto quelle parole non la conosceva bene, non si era neanche preoccupato di informarsi attraverso comuni conoscenze. Avrebbe almeno saputo quanto lei detestava quel tipo di approccio maschile. Era certa che se mai avesse letto quel bigliettino al momento giusto, si sarebbe girata per scoprire un belloccio insignificante, con il sorrisetto stampato sul viso, impegnato nel pregustare la facile scopata della settimana. Di tipi così pullulava anche la facoltà di Medicina, che nella sua testa straripava di ragazzi che già si allenavano a un futuro di infermiere prese negli ascensori e strumentiste pronte a tutto per accalappiarsi un professionista dal certo futuro.

Per questo si era sempre trovata bene con Riccardo, un ingegnere innamorato della perfetta prevedibilità della matematica, uno di quegli uomini che non l’avrebbe mai tradita, non perché non lo desiderasse, ma semplicemente perché uno più uno non poteva fare tre. Era la fedeltà intrinseca nella sua natura di uomo nato per seguire una logica la prima pietra del loro rapporto, germogliato nelle biblioteche universitarie tra un esame e l’altro, e sbocciato con un matrimonio festeggiato contestualmente alla prima assunzione di Riccardo. Quanto basta per pianificare un solido futuro, e mettere in cantiere Sara e Francesca.

Un giorno lei gli aveva confessato di essersi decisa a sposarlo quando si era resa conto che in tanti anni non aveva mai provato interesse per nessun altro uomo. Seppur fosse di bell’aspetto, Diana era nota nelle aule universitarie di Pavia per la propria rigidità e per l’ostentato disinteresse per tutto ciò che poteva distoglierla dallo studio, ragazzi compresi. Questo si era tradotto nel fatto che nessuno aveva mai avuto il coraggio di farle delle serie avances.

Non aveva idea se ciò che stava dicendo al marito fosse una reale prova d’amore, ma sicuramente lui era l’unico individuo a cui aveva permesso di avvicinarsi, perché era stato uno dei pochi che aveva atteso che fosse lei a dettare i modi e i tempi. Quanto basta per fidarsi ciecamente di lui, e non incorrere nella sgradevole sensazione di essere un suo parco giochi in carne e ossa.

Ora invece si ritrovava in mano la prova che le sue difese avevano subito un pericolosissimo attacco. Che lei non aveva neppure avvertito, togliendole la possibilità di respingerlo con le dovute contromisure. Come mai quel biglietto non era arrivato a destinazione? Probabile che quell’Andrea lo avesse infilato nel libro senza sapere che difficilmente i libri di testo venivano aperti durante la lezione, che spesso le diligenti studentesse come lei prendevano pagine e pagine di appunti senza perdersi una sola parola del docente, e solo su quelli avrebbero poi ripassato la lezione, lasciando ai rinunciatari della frequenza la necessità di ricorrere al testo ufficiale.

In ogni caso l’autore di quel pezzo di carta non aveva mai fatto effettivamente parte della sua vita, e di certo lei non lo considerava come un’occasione persa. Quando si alzò, fu solo per cercare il cestino della carta, ma Riccardo vi stava transitando proprio vicino. Si mise il biglietto in tasca, condannandosi in questo modo a rileggerlo al primo giro di lavatrice dei suoi jeans.

 

I neonati sanno già parlare.

Diana ne visitava almeno dieci al giorno, e ognuno aveva già una sua storia da raccontare, piccoli vagiti che narravano di mesi passati nella pancia della madre pieni di sensazioni, rumori, voci lontane che giungevano a loro ovattate e filtrate dal liquido amniotico. Diana amava il suo lavoro, era come se ogni volta rivivesse una nuova maternità.

Come ogni medico, si era costruita uno scudo sufficientemente spesso per tutelarsi dalle tragedie che le storie di quelle creature portavano con sé. Stava ben attenta a incamerare le vicende senza innamorarsi dei narratori, che potevano morire, avere brutte menomazioni o malformazioni, ma restavano sempre parte di quel i bambini che costituiva l’oggetto inanimato del suo lavoro.

Non c’era sguardo di madre disperata, speranzosa, interrogativa o intimidatoria che lei non potesse sostenere. In ospedale era genitrice di tutti e di nessuno, fata turchina per i dieci minuti della visita e, solo dopo, estranea e fredda analizzatrice di valori vitali.

Quel giorno però Diana sembrava non riuscire a cogliere appieno tutte le storie che passavano nel suo ambulatorio. Percepiva echi lontani, frammenti disturbati, che alle sue orecchie non arrivavano più già tradotti in un senso compiuto, ma restavano solo fastidioso rumore. Se ne accorse dopo qualche bambino e si soffermò a chiedersi dove fosse con la testa. Non che non riuscisse a concentrarsi sulle patologie da diagnosticare o sulle prescrizioni da dare alle neo-mamme, ma era del tutto evidente che il suo pensiero fosse distratto da qualcos’altro. Forse solo una semplice agitazione, un po’ di nervosismo, un sonno non soddisfacente, una colazione mal digerita.

Oppure, semplicemente, ― e finalmente la riconobbe ― la rabbia.

Rabbia per un uomo che si era permesso di seguirla. Rabbia per essere stata trasformata in una sudicia immagine utile alla masturbazione. Rabbia per l’impunità di quell’affronto, per tutti quegli anni lasciati passare permettendo a quell’uomo di serbare l’idea che tutte le donne fossero a disposizione della sua vista contorta da troppi giornali pornografici. Rabbia perché ora se lo immaginava a raccontare a qualcuno della sua ultima conquista, qualche povera stupida finita nella rete di una finta ossessione amorosa che altro non nasconde se non sete di potere. Quel potere presunto dei maschi sulle donne che lei avvertiva sulla pelle anche solo per uno sguardo indiscreto o una battuta inopportuna. E che sentiva il forte bisogno di punire e vendicare.

 

Avere un metodo significa fare l’elenco dei fattori a disposizione, verificare tutte le possibili variabili, e identificare il punto in cui la ricerca può essere ristretta a pochi elementi, secondo un sistema a eliminazione basato sulla probabilità. D’altronde Diana disponeva di pochi dati, e il numero di iscritti a Economia nell’anno in cui lei aveva sostenuto l’esame di Anatomia era tutt’altro che esiguo. E il bastardo non aveva neppure fatto il piacere di chiamarsi con un nome poco comune. Ma la rabbia le permise di fare qualcosa che mai si sarebbe sognata di poter fare: prendere un permesso dal lavoro, andare alla segreteria dell’Università, e farsi dare gli elenchi degli iscritti degli anni in cui lei la frequentava.

A quel punto, isolati tutti gli Andrea, l’unico modo per risalire a quello giusto era confrontare la scrittura del biglietto con quella di un qualsiasi documento firmato. La segreteria dell’Università le confermò al telefono che, ai tempi, venivano archiviati anche i libretti universitari e, stranamente, non pose ostacoli, quando lei disse che doveva ricercare il proprio e quello di un amico.

La segreteria non si trovava più dov’era un tempo, in 15 anni anche Pavia aveva mutato il suo aspetto, e così perse altri dieci minuti per trovare il posto giusto. Gli edifici erano i medesimi, ma all’interno qualche architetto sadico e ben pagato, vincitore di chissà quale concorso pubblico, aveva deciso di trasformare il tutto in un insieme di tubi di latta, sifoni colorati e scale mobili da centro commerciale, che probabilmente pretendevano di richiamare il centro Georges Pompidou di Parigi. Un’idea di modernità da primi del Novecento che rendeva l’ambiente ancora più grottesco e antico. Era l’evidente fallimento del nuovo bisogno di rendere la conoscenza visibilmente appetibile nell’era dell’informazione veloce, come se una lezione universitaria potesse risultare più interessante su una specie di astronave piuttosto che in una vecchia aula.

Ci mise tre ore a recuperare i ventidue libretti degli Andrea che aveva localizzato, e a confrontare la firma di ognuno con quella del biglietto. Un metodo che si rivelò efficace.

Le vocali erano strette per far sembrare la firma più matura, da uomo scafato. Un particolare che confermava solo l’idea che si era fatta di quell’Andrea… Barson. Bello e con il sorrisetto beffardo di chi sa di esserlo. Era lui che doveva cercare, non ebbe dubbi.

 

Tornata a casa, comunicò con freddezza a Riccardo che doveva assolutamente controllare una mail prima di andare a letto. Dichiarazione rischiosa, visto che da sempre era sua consolidata abitudine evitare di occuparsi del lavoro tra le mura domestiche. Ma lui si limitò a mugugnare un Va bene dall’altra stanza senza fare domande. Diana corse nello studio, e i due minuti necessari al suo computer per lanciare tutti i programmi in avvio automatico le sembrarono lunghissimi. Disattivò anche l’antivirus pur di accelerare l’operazione.

Al nome di Andrea Barson il motore di ricerca rispose con una sfilza di link. Il bastardo aveva evidentemente molti omonimi. Provò a spulciare con rapidità i risultati: c’era un giocatore di rugby di Rovigo, ma dalla foto vide subito che non era la stessa persona, così come un fotografo di Conegliano e un chitarrista di Legnano che però usava solitamente un nome d’arte.

Poi, arrivata ormai alla quarta pagina di risultati e già rassegnata a rimandare al giorno dopo l’indagine, cliccò una scheda di LinkedIn. L’uomo non aveva avuto cura di completare il suo curriculum con una fotografia, ma tra i suoi studi figurava la laurea in Economia presso la sua stessa università, e nello stesso anno del libretto da lei trovato. Stavolta lo aveva preso davvero.

Quell’Andrea Barson si era laureato nello stesso anno di Diana. Fuori corso di due anni quindi, in quanto Economia era una facoltà più breve di Medicina, e lui risultava essere suo coetaneo. Indubbiamente il ragazzo se l’era anche presa comoda, visto che il voto finale di laurea, così come la media dei voti degli esami, era ben al di sotto dell’eccellenza.

Dalla scheda in LinkedIn non era chiaro cosa avesse combinato nei primi due anni dopo la laurea, ma dalla fine del 1997 risultava essere diventato Sales Manager della MedStyle, una grossa società nel settore biomedicale. Qui l’iter lavorativo era poco chiaro, ma a grandi linee Diana capì che dopo qualche anno di gavetta come semplice commerciale, il ragazzo aveva fatto carriera diventando direttore delle vendite di un’azienda che veniva descritta come appartenente allo stesso gruppo della precedente, probabilmente una sorta di piccolo spin-off dedicato a un particolare prodotto. Quello che interessava Diana, comunque, era sapere se Andrea stesse ancora occupando quella posizione, e ciò appariva.

Quello che invece non prese proprio come un caso, fu che l’azienda si trovava a Roma, la stessa città in cui, due settimane dopo, lei avrebbe dovuto passare quattro giorni per l’annuale congresso della Società Nazionale di Pediatria.

 

Ora però Diana non aveva nessun piano preciso. Il rebus si era risolto troppo presto, e non era pronta a incontrarlo in tempi così brevi. Cosa gli avrebbe detto una volta trovato?

Passò le successive due settimane in piena apprensione, talmente palese da doversi giustificare con tutti, adducendo la preparazione del congresso come scusa. Aveva una relazione da stendere su un programma di visite ai bambini e relativi follow-up che lei e le sue colleghe considerano innovativo e decisamente ambizioso. La presentazione era un gioco da ragazzi per una della sua esperienza, ma l’occasione era importante per la sua carriera, per cui questa motivazione pareva tranquillizzare tutti, Riccardo compreso.

Dopo due giorni, si decise: avrebbe scritto un biglietto di risposta. Lo avrebbe recapitato all’interessato in una busta contenente anche il messaggio originario, in modo che collegasse e capisse senza troppe spiegazioni. Era sicura che, sebbene il suo aspetto non fosse poi molto diverso da quello di un tempo, l’uomo di certo non l’avrebbe riconosciuta. Ma del biglietto se ne sarebbe ricordato, anche solo perché gli era valso una sconfitta.

Decise che glielo avrebbe consegnato di persona, guardandolo bene negli occhi e lanciandogli un messaggio chiaro che lui avrebbe capito solo aprendo la busta.

 

Andrea,

mi giro a guardare due file dietro di me solo oggi, dopo tanti anni. Perché è solo oggi che il tuo singolare sistema di comunicazione ha raggiunto il suo obiettivo. Mi basta leggere le tue parole per capire che oggi magari sarai sposato con una pollastra che è caduta nel tuo tranello. E che magari vive costretta a far finta di ignorare quanto tu la tradisci ad ogni occasione e ad ogni viaggio di lavoro. Volevo solo dirti che anche se quel giorno mi fossi girata, sarebbe stato solo per fulminarti con lo stesso sguardo che ti ho dedicato oggi. Perché un uomo come te non merita altro.

Diana

 

Meditò molto se firmare o no con il proprio nome, poi decretò che la lettera avrebbe perso peso senza quel nome. Lui avrebbe dovuto sapere tutto di chi gli aveva documentato tutta la sua insulsaggine di uomo cacciatore. Mise i due biglietti nella busta, e tornò a concentrarsi sulla presentazione per il congresso. Per una volta, finalmente, soddisfatta di sé.

 

 

 

DOVE NESSUNO SI AVVICINA

 

 

Siete pronti ad andare

dove nessuno si avvicina?

Siete pronti perché

tutto sia confuso?

Mudhoney – Come To Mind

 

 

L’albergo dove alloggiava era solo a un paio di isolati di distanza dal centro congressi, che era alla Pontificia Università San Tommaso D’Aquino di Roma, vicino ai Fori Imperiali. La sua relazione era prevista per le undici del terzo giorno, per cui aveva parecchio tempo libero. Non aveva particolare interesse per il congresso, se non per un paio di interventi del secondo giorno e per una riunione con il direttivo di una associazione di mamme. Decise così che avrebbe svolto la sua missione quella mattina stessa, dopo essersi registrata e aver recuperato il pass.

Anche gli uffici della MedStyle erano raggiungibili a piedi. Diana percorse le affollate strade del centro cittadino senza fretta, chiedendosi a ogni incrocio se fosse davvero il caso di fare quella visita, e ritrovando la convinzione ogni volta che l’omino del semaforo si ricolorava di verde.

Si fermò davanti a una vetrina e si osservò. Provò a mettersi nei panni di Barson, cercò di vivere la sua reazione nel rivederla. Sempre ammesso che lui l’avrebbe riconosciuta, ovviamente, il che era improbabile.

Il tailleur grigio che aveva scelto per la giornata era uno dei più attillati del suo guardaroba, di certo non sfacciato, ma ugualmente provocante nella sua professionale serietà. Se il giacchino lasciava però dubbi sulla reale dimensione del suo petto, la gonna invece non si vergognava di seguire tutte quelle forme che lei sapeva essere oggetto di sguardi indiscreti.

Era consapevole di essere una bella donna. Ma negli anni dell’adolescenza si era sempre rifiutata di sentirsi tale, quando usava soffocare le proprie curve sotto lunghi maglioni che arrivavano quasi sopra il ginocchio. Con il tempo però aveva imparato il piacere di godere della visione del proprio fisico, e così il suo abbigliamento si era fatto di anno in anno sempre più femminile. Oggi, sorpassati i quarant’anni, Diana esibiva tranquillamente una scollatura accennata o un piccolo spacco di una gonna senza più paura dei tanto odiati sguardi dei colleghi e dei passanti. Li detestava, ma aveva imparato a fare in modo che gli errori degli altri non condizionassero la sua vita.

Quando studiava medicina si era fatta i capelli corti, convinta che il taglio lungo fosse solo un ulteriore richiamo per i tanti mosconi che ronzavano intorno alle ragazze. Oggi invece il riflesso della vetrina restituiva l’immagine di una donna con una lunga e liscia capigliatura castana, quasi rossa grazie a un recente tocco d’autore della sua parrucchiera. Al momento era raccolta da una elegante ma non vistosa spilla, sempre pronta comunque a liberarsi e cadere fino a coprire le spalle.

Restò a osservarsi per cinque minuti, controllando il trucco sugli occhi. Non era pesante, ma evidente quanto basta per comunicare l’intenzione di non nascondere il proprio sguardo e la propria potenza seduttiva, così come il rossetto trasparente e leggero non lasciava che le labbra restassero in balia del caso. Sorrise per quella non prevista ispezione, ben consapevole che la scelta di voler piacere a Barson faceva parte della tortura che aveva preparato per lui, che avrebbe forse per la prima volta sperimentato il dolore di essere rifiutato da una donna ancora prima di poterne godere appieno della vista.

 

Il palazzo che le si prospettò una volta raggiunto l’indirizzo della MedStyle la impressionò. Non aveva ben colto le dimensioni della società navigando fugacemente nel loro sito web, ma, a essere sinceri, non aveva neanche ben capito di cosa si occupassero in dettaglio, nonostante operassero anche nel settore pediatrico, a quanto aveva appreso. La magniloquenza di quel mosaico di vetri le parve perfino esagerata, e per un attimo il confronto con i fatiscenti locali in cui era costretta a lavorare la umiliò. Arrivò decisa e già accigliata alla reception, e attese che la ragazza al banco terminasse una telefonata prima di assumere un’aria professionale e offrirle il suo Buon giorno, mi chiamo Diana Palmieri. Cerco il signor Andrea Barson.

Si mise in attesa della contro-richiesta di un appuntamento preciso, come da manuale della buona receptionist, ma dovette presto rendersi conto che la sua frase aveva sortito un effetto inaspettato, perché la centralinista balbettò prima di riuscire a comporre un Attenda un attimo, chiedo in direzione. E invece di riprendere in mano il telefono, uscì dal suo gabbiotto e si precipitò verso l’ascensore con in mano il biglietto da visita che Diana le aveva consegnato. Evidentemente il chiedere in direzione era atto da svolgere di persona anche per i subalterni.

Passarono dieci minuti buoni, durante i quali Diana cominciò a sentirsi nervosa, anche a causa del telefono del centralino che continuava a suonare senza che nessuno rispondesse. Dietro di lei un’altra persona, con una palese faccia da agente di commercio, attendeva paziente che qualcuno gli desse retta. La zelante centralinista tornò, e, ancor prima di riprendere posto nel suo gabbiotto, le rivolse un gentile L’amministratore delegato la riceverà quanto prima. Vada pure al terzo piano, e attenda nella saletta appena fuori dall’ascensore.

Ma io devo solo…, ma la centralinista non le lasciò il tempo di elaborare una risposta che già stava chiedendo al nuovo arrivato con chi avesse appuntamento. Diana provò almeno a sentire se fosse Barson l’uomo che cercava l’imperturbabile personaggio, che aveva atteso il suo turno senza minimamente spazientirsi, come se l’attesa fosse prevista dal suo mansionario. Ma lui esibì ben altro nome. Si rassegnò quindi a seguire le istruzioni e si diresse verso l’ascensore.

 

L’attesa nella saletta fu anche troppo lunga. Più di mezz’ora in cui Diana sprofondò nello spettrale silenzio degli uffici, non trovando niente di meglio da fare se non osservare le proprie scarpe e cercare una buona volta di convincersi di aver scelto il paio giusto per l’occasione. In quaranta minuti buoni solo un’impiegata passò in tutta fretta per quel corridoio, mentre dagli uffici arrivava un impercettibile rumore di ticchettio da tastiera di computer, solo ogni tanto interrotto da qualche bisbiglio e dalla suoneria di un telefono. Non aveva ben capito il perché di quella anticamera e come mai non le avessero semplicemente risposto C’è o Non c’è.

Quando ormai stava decidendo di darsi alla fuga, una bionda statuaria, che aveva tutta l’aria di aver passato i vent’anni precedenti a fare la modella e non certo la segretaria di direzione, la invitò a entrare in un ufficio. Fece appena in tempo a leggere la targhetta sulla porta.

 

Christopher John Boyle

General Manager

 

Ad accoglierla le venne incontro una sorta di luogo comune incarnato in un general manager, uno di quelli che probabilmente di secondo lavoro ne interpretava il ruolo come caratterista in qualche film americano. Boyle non era giovane, e non nascondeva neanche troppo i suoi sessant’anni già scoccati da parecchio, complici anche un sorriso e delle false buone maniere che contribuivano solo a renderlo ancora più antico.

Aveva la pancia di chi ha smesso da tempo di vendere la propria immagine con il fisico, e l’aria di chi non ha bisogno di imbastire messinscene a effetto. Le andò incontro con l’inevitabile Buon giorno dottoressa Palmieri. Prego, si accomodi pure qui. Posso offrirle qualcosa? che la costrinse a rispondere senza troppa convinzione con un Un caffè potrebbe andare bene, grazie che le impedì di gestire le redini della situazione fin da subito. La parlata italiana di Boyle era perfetta, senza accenti che giustificassero quel nome straniero.

Boyle ripeté l’ordinazione alla bionda aggiungendone uno per sé. Poi tornò alla scrivania e fece improvvisamente gravare il peso del suo pancione sulla poltrona e, quasi ridendo, alzò gli occhi al cielo.

― Una pediatra! Come ho fatto a non pensarci?

Diana lo scrutò, sorpresa che quell’uomo iniziasse la conversazione con la naturalezza di chi sta  riprendendo un vecchio discorso interrotto. Rispose con un volutamente scortese Prego?  e rimase in attesa degli sviluppi.

― Ha ragione, mi scusi. Non mi sono presentato. Mi chiamo Christopher Boyle, e dirigo questa azienda da più di vent’anni. Posso vantarmi di essere uno dei più duraturi general manager della nazione sa? Di solito quelli nella mia posizione durano in media cinque o sei anni.  Se le cose vanno bene saltano poi in un’azienda più grande per uno stipendio maggiore, altrimenti si limitano ad abbandonare la nave che affonda per andare a capitanarne un’altra di uguali dimensioni. Io invece sono qui da tempo a remare per questo vascello, e da allora ho costruito una bella flotta. Finché non perderò troppi bastimenti in battaglia, gli azionisti da qui non mi smuoveranno di certo.

Diana perse per la prima volta la pazienza. Strinse nervosamente la borsetta di pelle che aveva appoggiato sulle ginocchia in evidente posizione di difesa, e cominciò ad agitarsi, seduta sull’unica poltrona posizionata di fronte alla scrivania. Assunse un tono ben poco accomodante.

― Mi scusi… perché mi dice queste cose? Io devo solo recapitare un messaggio al signor Andrea Barson. Lavora ancora per voi, no?

Boyle sembrò sinceramente sorpreso dalla richiesta, come se Diana avesse fatto una mossa scorretta durante una partita a scacchi. Ma si riprese subito. Si portò in avanti, prese in mano una matita solo per giocarci e passarsela tra le mani, e assunse un tono quasi canzonatorio.

― E, se mi è permesso, posso chiederle che genere di messaggio deve recapitare al nostro Barson?

― No, francamente. È una questione personale, niente a che vedere con la MedStyle.

Boyle arretrò soddisfatto, facendo cigolare le giunture di una poltrona ormai esausta. A questo punto il timbro era quello di chi sta per scoccare il colpo vincente durante un duello.

― E da quando le comunicazioni personali vengono recapitate sul luogo di lavoro? Se io volessi mandarle un messaggio personale, il suo ambulatorio sarebbe l’ultimo posto dove verrei a consegnarglielo. Tempo due minuti, e avrei la certezza che anche l’ultimo degli infermieri sarebbe al corrente dei nostri rapporti.

Diana sentì la pancia che ribolliva, mentre una fitta le prese lo stomaco. Ancora una volta qualcuno aveva dato per scontato che tra uomo e donna i rapporti potessero solo essere sessuali, quando non lavorativi. In altri momenti avrebbe aggredito Boyle e la sua boria, ma riuscì a trattenersi, anche se il suo tono svoltò decisamente verso una modalità minacciosa.

― Io non ho rapporti con il signor Barson. Devo solo chiudere una vecchia questione che non riguarda lei, né tantomeno i suoi azionisti. Non pensavo che avrei scatenato tanto putiferio. Me ne vado subito, e mi scusi.

Boyle si preoccupò della reazione e si alzò di scatto prima ancora che lo potesse fare lei.

― No no, non si alzi. Colpa mia, ha ragione, non l’ho affrontata nel dovuto modo, sono un vero villano. Le darò un vantaggio. Io ora le spiego la situazione, non curandomi di quanto lei sappia già o di quante importanti nuove informazioni le sto passando senza saperlo. Così almeno sarà costretta a fare la sua mossa.

― Ma guardi che ci deve essere un errore, io non ho nessuna mossa da fare. Non sono venuta per giocare. Le ripeto che tutto questo non ha senso. Mi dica solo se trovo qui Barson o dove posso trovarlo. Oppure, se non vuole dirmelo, fa niente, arrivederci e tante grazie!

― Abbia solo ancora un minimo di pazienza. No, non lo trova qui Andrea Barson. E piacerebbe sapere anche a me che fine ha fatto. È una settimana che lo cerco.

Più che sorpresa, Diana fu delusa di quella risposta, perché suonava come la conferma che la sua missione era fallita. Si rilassò sulla sedia come se la tensione del corpo non avesse più motivo di esistere in mancanza del suo obiettivo, e provò almeno a capire.

― Allora sono solo arrivata nel momento sbagliato mi sembra di capire…

― O forse giusto in tempo per sbloccare la situazione. Mi permetta di spiegarle in che punto della storia è arrivata.

― Le concedo poco tempo, devo tornare al congresso.

Boyle cominciò a passeggiare per l’ufficio come se dovesse declamare una poesia a memoria. Sospirò e iniziò il suo racconto.

― Vede, dottoressa Palmieri, la MedStyle è un’azienda nata più di cinquant’anni anni fa come produttrice di camici bianchi per medici, da qui questo nome un po’ modaiolo. Da allora la ditta è cresciuta molto, e abbiamo aperto in tutto ventiquattro società satellite, una per ogni settore nuovo. Una scelta che può sembrare strana, una dispersione di forze notevole visto che il target di mercato è sempre lo stesso. Così come in comune sono spesso anche gli agenti sparsi per la nazione, a parte qualche product specialist dedicato. Ma in questo modo possiamo osare di più, e se un mercato non si rivela redditizio, si chiude l’azienda e si passa ad altro. Di queste ventiquattro società oggi ne restano in vita tredici, ma ne stiamo progettando altre quattro. Alcune sono ormai consolidate, altre potrebbero evolvere in qualcosa di diverso. Il mercato della sanità ha un vantaggio e uno svantaggio: non morirà mai, ma è secondo solo a quello dell’informatica per necessità d’innovazione e variazioni di scenari. Ora, ogni società viene data in mano a un venditore che si è guadagnato la nostra fiducia, e Barson è già da qualche anno il timoniere della Inari, una società che si occupa del settore della nutrizione parenterale. Ne avrà sicuramente sentito parlare…

― Forse ho in mente il marchio, ma non ne sono sicura. Anche se il nome è strano.

― Il nome fu un’idea dello stesso Barson, appassionato di cultura giapponese. Inari nella mitologia nipponica è la dea della fertilità, del riso e del cibo in generale. È un nome che ritrova se entra in qualsiasi ristorante giapponese. Molto del materiale commercializzato dalla Inari viene utilizzato anche nelle pediatrie.

― Per questo mi ha preso per una cliente, ma guardi che io…

Boyle la fermò con un gesto della mano.

― Mi lasci finire. La Inari è stata il fiore all’occhiello della nostra costellazione di aziende fino a qualche tempo fa, con un mercato sempre in espansione. E questo soprattutto grazie all’indubbia abilità di Barson di variare i fornitori per restare sempre competitivi anche in anni di crisi del welfare. Poi qualcosa è cambiato, Barson ha perso mordente, e soprattutto ha cominciato a entrare in rotta di collisione con la casa madre.

― Che sarebbe lei?

― Io, ma soprattutto la proprietà e i nostri azionisti. Una settimana fa, dopo l’ennesima riunione di fuoco, di Barson abbiamo perso le tracce. E qui arriva lei. Io stavo attendendo l’inizio del congresso di pediatria in città proprio per vedere se qualcuno avrebbe preso contatti con lui.

― Io capisco, ma, per quanto le possa sembrare un’incredibile casualità, io stavo cercando Barson non per motivi professionali, ma per una vecchia storia personale.

Boyle sorrise, come se si aspettasse quella ostinata posizione di difesa.

― La fama di donnaiolo del nostro Barson rende credibile che possa aver fatto cadere nella rete anche una bella donna come lei, però mi permetta di conservare qualche dubbio sulla casualità del suo arrivo qui. Il congresso è iniziato stamattina, e in lei abbiamo visto una certa urgenza a contattarlo, che francamente fa tornare troppi conti.

Diana non ne poté più e alzò la voce: ― Ho la fortuna di non potermi annoverare tra le prede del signore in questione. E forse dovrebbe cominciare a fare qualche riflessione in più su caso e coincidenza, perché le assicuro che se è vero che la sua storia s’interseca con la mia come due pezzi di un puzzle, la figura che stiamo cercando di ricostruire è davvero diversa.

Il tac improvviso che Diana sentì arrivare dalle mani di Boyle indicò che la matita che veniva passata nervosamente tra le dita si era spezzata. Boyle di fatto esitò un attimo prima di rispondere, come se stesse incamerando energie sufficienti a non sbottare egli stesso in un urlo di rabbia. Si girò improvvisamente dimostrando tutta la sua abilità nel costruire smaglianti sorrisi, e, con una gentilezza ben poco credibile, chiuse la questione prima che degenerasse.

― Senta Palmieri, da buon manager non amo le perdite di tempo, per cui ora la lascio andare. Capisco subito quando insistere diventerebbe controproducente. Mettiamola così, io sono certo che Barson riapparirà al suo congresso, e se lei davvero non ha interesse nelle nostre questioni societarie, ritengo che non le costerà fatica farmi la cortesia di avvertirmi della sua ricomparsa.

Diana scattò in piedi e tese la mano per prendere il biglietto da visita che Boyle le stava offrendo, felice di aver avuto il permesso di interrompere quella tortura.

― Ci conti. Non so quali problemi abbiate con lui, ma onestamente non m’interessano.

Boyle le prese la mano e contro ogni regola di bon ton la strinse in modo energico, trattenendola quanto basta per fissarla negli occhi e sussurrare un Me lo dimostri che suonò come una sfida.

 

Mentre scendeva gli scalini del palazzo della MedStyle Diana maledì sé stessa per essersi buttata così stupidamente nella bocca del leone. Anni passati a evitare il mondo delle aziende e personaggi come Boyle, e poi era bastato un semplice bigliettino del passato perché lei perdesse una intera mattinata a conversare con una persona che le comunicava solo un gran fastidio. Si sentì quasi sporca, sentì l’improvvisa necessità di buttarsi sotto una doccia.

E così, quando ripercorse il tragitto fatto due ora prima, si rese conto di aver completamente smarrito lo spirito che animava quella sua sciocca ricerca. Si riguardò nella stessa vetrina per scoprirsi cambiata, con i capelli che avevano già perso la baldanzosa e aggressiva forma di prima, tanto che li liberò.

Non seppe dire perché, ma non si piacque più. Si odiò anche per questo, ma ripensandoci ancora, decise che l’unico da odiare era Barson, che anche indirettamente l’aveva costretta a quel calvario in un mondo che sentiva ostile e per buona sorte lontano. La forza di continuare gli fu restituita proprio dall’ossessione che aveva ormai maturato per quell’uomo.

Donnaiolo, manager d’assalto, forse in disgrazia professionale: la conversazione con Boyle le confermò che la sua interpretazione di quel biglietto combaciava esattamente con la realtà anche parecchi anni dopo. Esistevano nel mondo milioni di persone peggio di lui, ma per fortuna non avevano mai incrociato la sua strada. Mentre lui anni prima aveva tentato di coinvolgerla nella sua storia marcia senza mostrarle il minimo rispetto. Uno che non porta rispetto alle donne non può rispettare niente nella vita, nel lavoro così come in amore.

Giunta in albergo, rapita da questi pensieri, riempì la vasca da bagno e rifletté sul da farsi. Se la Inari era interessata ai pediatri, avrebbe di sicuro avuto uno stand nella zona dedicata all’industria presente in ogni congresso. Un settore che lei aveva sempre ignorato, poco avvezza a occuparsi degli acquisti della sua struttura ospedaliera. Era tempo invece di darci un’occhiata.

 

La Pontificia Università San Tommaso D’Aquino era più comunemente nota come l’Angelicum tra i romani, ed era un bellissimo luogo di studi fin dai primi del 1200. Aveva avuto l’onore di essere diretto da Tommaso D’Aquino pochi anni dopo. Per secoli era stato il laboratorio teologico dello Stato Pontificio, che ancora ne deteneva la proprietà. Prima di entrare nell’area dove veniva ospitato il Congresso Nazionale di Pediatria, Diana fece una passeggiata nel bellissimo chiostro, respirando a pieni polmoni quell’aria di antico sapere, ricerca di saggezza e di verità che quelle mura comunicavano ancora. Pensare che all’interno si potesse dare asilo a uomini empi come Andrea ― e si meravigliò di aver adoperato nelle sue riflessioni un termine così, da religiosi ― la fece innervosire ulteriormente. Era proprio quel tipo di violazione che la spingeva a non fermarsi nella sua vendetta.

La Inari aveva effettivamente un piccolo stand in un angolo non troppo visibile del corridoio, con nessun effetto speciale se non una ragazza che distribuiva volantini ai medici e due venditori che si affannavano a prendere nominativi, dando spiegazioni su una serie di prodotti. Il logo rappresentava una volpe stilizzata, e non vi era nessun richiamo al fatto che si trattasse di una ditta che operava nel settore medicale. Diana si domandò come mai Barson fosse andato contro ogni legge della comunicazione industriale, quelle che vogliono nome e insegna già di per sé chiarificatori dell’attività e del prodotto di una società. Ma d’altronde, ora che ci pensava, il nome della Inari non compariva neanche sul suo profilo LinkedIn, altrimenti lo avrebbe notato.

Gironzolò nei pressi del loro spazio cercando di trovare tracce di quanto le aveva detto Boyle. Poi studiò bene la ragazza e pensò che si trattasse palesemente di una hostess assunta per l’occasione, vuoi per l’esagerata avvenenza, vuoi perché a un certo punto, interrogata su un prodotto, chiamò in soccorso uno dei due agenti con aria imbarazzata. Diana la identificò come il punto debole del fortino, l’unica sicuramente all’oscuro di tutto, per cui si assicurò che i due commerciali fossero ben occupati prima di avvicinarsi e chiedere del signor Barson.

Non si aspettava ovviamente una risposta affermativa, quanto però la possibilità di ripassare il giorno dopo a chiedere se il suo uomo fosse comparso. Invece la ragazza la scrutò per pochi secondi prima di fucilarla con un È lei la dottoressa Palmieri?

Diana barcollò. Balbettò un incomprensibile Sì, sono io, quanto basta perché la ragazza trovasse il coraggio di rifilarle una busta seguita dall’ovvio Il signor Barson mi ha detto di darle questa. Diana si fece forza e decise di comportarsi come se tutto fosse normale. E lui dov’è? riuscì a biascicare. Con la crudeltà di chi non sa valutare il peso delle proprie parole, la giovane le rigettò un Ah, è passato mezz’ora fa a lasciare la busta per lei, ma è già andato via. Aveva da fare, mi ha detto, con un tono che dava intendere che la conversazione sarebbe finita così.

 

Gentile Dottoressa Palmieri

mi hanno appena comunicato che mi ha cercato alla MedStyle. Come avrà appreso dall’efficiente Boyle, al momento non è quella la sede adatta dove trovarmi, per cui la sua solerzia è stata mal indirizzata. Sperando in una maggior prudenza in futuro, la invito a rimanere a disposizione al congresso, dove verrà presto avvicinata da una persona di mia fiducia.

Avremo così modo di incontrarci.

Andrea

 

Era il colmo. Adesso si permetteva pure di sgridarla come una bambina. Ma quella storia stava diventando troppo bizzarra, forse si stava immischiando in una questione più grande di lei. Il tono serio del messaggio rendeva evidente che Barson era coinvolto in affari sporchi, la cui entità era per lei impossibile da decifrare. E un medico, con a casa un marito e due figlie, di certo non era il caso si mettesse a giocare a fare James Bond. Ma il tono di questo nuovo biglietto la irritò talmente da farle dimenticare ogni paura e prudenza.

La comunicazione era scritta a mano, cosa che le permise di confrontare la grafia con il vecchio biglietto. Nonostante il tratto si fosse fatto più stretto e nervoso, si trattava davvero della stessa persona. Quella nuova certezza e il nuovo affronto la spinse a decidere di continuare il gioco fino a quando non avesse potuto sputare tutto quello che aveva da dire in faccia a quell’individuo.

Si rassegnò dunque a passare il pomeriggio ad ascoltare relazioni di un mondo che già le sembrava lontano quanto quello di Boyle. Da sempre restia a partecipare alla gara di pavoneggiamento della propria scienza, Diana si limitava sempre a interventi secchi e coincisi, cosa che le aveva garantito un buon nome nel settore, senza quei clamori che può ottenere solo chi alla carriera di medico affianca anche quella di politico e venditore di sé stesso.

Ma c’era un altro fatto che le rendeva insopportabile il non aver potuto concludere tutta la faccenda nella mattinata: entro pochi minuti sarebbe arrivata Donita, e questo significava non poter continuare le ricerche senza coinvolgerla.

 

Donita Gardoni era una pediatra conosciuta circa dieci anni prima durante una serata di beneficenza. Diana se l’era trovata a fianco al proprio tavolo. Le erano bastati cinque minuti per detestarla, e le successive tre ore per decidere di aver trovato la propria migliore amica.

Volgare e sempre pronta a battute che la mettevano in imbarazzo, Donita si rivelò persona dal cuore d’oro, tanto che Diana decise che solo a quella donna avrebbe sempre concesso le cadute di stile che invece non perdonava a nessun altro, tanto più sul lavoro.

All’inizio l’aveva sopportata solo per rispetto ai suoi almeno dieci anni in più, ma in tutti quegli anni tra loro era cresciuta una profonda amicizia, una stima reciproca amplificata dalle loro evidenti differenze. Se mai Diana avesse avuto un segreto, Donita sarebbe stata l’unica persona al mondo a cui l’avrebbe confidato. E lei ora un piccolo segreto ce l’aveva.

Intanto, il silenzio della sala fu presto interrotto da una Donita che avanzava per i corridoi salutando a gran voce ogni singolo medico di sua conoscenza. Praticamente tutti. E per ognuno aveva in serbo una battuta. Sembravano preparate durante l’anno apposta per l’occasione, ma Diana sapeva bene quanto fossero del tutto improvvisate e spontanee.

Salve dottor Crovetto, se il congresso si dovesse rivelare la solita rottura di palle, posso ancora contare su quelle sue bottigliette di Ballantines che tiene nascoste nella borsa? Oh dottoressa Rigoli, la vedo in grande forma, ha fatto un corso di cucina finalmente? Glielo dicevo che i surgelati ingrassano! Dottor Valenti! La sala risplende per la sua presenza! Sarà forse il riflesso dei neon sulla sua calvizie? Dottoressa Prestigiacomo! Ho visto sua figlia in quel servizio fotografico. Un angelo! Poi quel seno nuovo le sta davvero bene!

Donita avanzava come al solito trasportando qualche borsa in più del possibile, non curandosi del color paonazzo assunto dal suo viso mentre non risparmiava fiato pur di avere una buona parola per tutti.

Diana la osservò e rise con amore per quella donna goffa e inopportuna. La adorava.

Donita la vide e non la risparmiò.

― Cazzo Palmieri! Non siamo in un convento! Se ti decidessi a tagliare almeno quindici centimetri di quella gonna attireresti un po’ di maschi interessanti in più, e forse questo mortorio diventerebbe davvero il posto giusto dove trovare il mio quarto marito.

Diana rise. Le andò incontro e l’abbracciò.

― Donita, io un marito ce l’ho già, non posso attirarli per te.

― Vero Palmieri. Anzi, allontanati, che vicino a te faccio una figuraccia. Sei la mia cocca, ma sei troppo strafiga per i miei gusti.

Donita la strinse forte.

― Donita, ma sei sola?

― Oh, cazzo, ho perso la mia Sancho Panza. Quella matta della Fini tenta di sfuggirmi ogni volta. Però sono quindici anni che la ribecco sempre.

E rise sguaiatamente, mentre la dottoressa Fini usciva allo scoperto. Demetra Fini era una donnetta secca e con un vestito nero utilizzabile all’occorrenza per un funerale, una che normalmente passava la vita a evitare di interrompere Donita annuendo con la testa e tenendo sempre l’espressione di chi, più che assistere, era costretta a subire nel quotidiano quell’essere imbarazzante.

― Salve dottoressa Fini, la sua resistenza le fa onore ― le disse Diana.

― Non si preoccupi dottoressa Palmieri, Donita abbaia ma non morde, lo sa meglio di me.

― Non è vero! ― si affrettò a correggerla Donita. ― Una volta il mio secondo marito l’ho morso. Ma non dove avrei voluto.

Le tre donne risero, persino la Fini con il tempo aveva trovato nei meandri della sua compassata personalità un registro frivolo che le permetteva di resistere agli show infiniti della collega.

Diana si sentì sollevata nell’essere di nuovo in compagnia di Donita. Nonostante il suo fare giullaresco, era una persona in grado di rassicurarla e farla sentire protetta, e in quel momento sentiva di averne davvero bisogno. Nella tasca continuava a tenere il bigliettino di Barson, e cercò solo di trovare il momento giusto per parlargliene.

 

Verso sera ancora nessuno si era fatto vivo, e la compagnia di Donita le stava quasi facendo dimenticare i suoi propositi. A un certo punto però venne avvicinata da una donna con un viso familiare che continuò a sorridere mentre sussurrava Mangia riso, dottoressa Palmieri? Stavolta fu pronta con il suo Sì, spesso, come se la conversazione fosse normale. La donna fu soddisfatta della reazione e chiuse la questione con un Allora ci vediamo allo Sushisen, il ristorante giapponese che troverà a duecento metri dal centro congressi. Diana estrasse il suo Ma con chi ho il piacere di parlare? più in fretta che poteva, ma senza risultato, perché la donna stava già seguendo un gruppetto di medici, parlottando con loro come se riprendesse un discorso appena interrotto. Diana non la seguì e non insistette. Il ristorante giapponese era un indizio sufficiente a farle capire che quella era la persona inviata da Barson.

Donita aveva assistito al bizzarro scambio di battute e stranamente non trovò nulla da dire. Diana si girò verso di lei e le disse un Stasera ho bisogno di te, Donita. Poi ti spiego che lei prese molto seriamente. Lo capì anche dal fatto che di solito la chiamava Palmieri per canzonarla, ma quando assumeva un tono serio tornava a essere Diana. Era questo che le piaceva di Donita, capiva sempre quando non era il caso di scherzare. Si muoveva come un elefante in una cristalleria, ma a ben guardare si capiva che stava sempre attenta a non rompere mai nulla che appartenesse alle persone che amava.

― Quale sarà il titolo della serata, Diana?

― Vendetta e punizione per un maschio bastardo.

Donita si eccitò.

― Cazzo Palmieri! Allora hai tutto il mio appoggio. Era ora che ti decidessi a trovarmi qualcosa da fare durante questi congressi, temevo già di essermi fatta l’unica amica giovane già più vecchia di me.

― Se le cose vanno come dico io, stasera ci divertiamo, Donita. Ovviamente Riccardo…

― Chi?

― …Riccardo …intendo.

― Ma chi?

― Cioè, voglio dire che di tutto questo, come ovvio, Riccardo non deve sapere.

― Sì, ok. Ma Riccardo chi?

Si rese conto solo allora dello scherzo e rise, mentre mentalmente si dava della stupida.

 

Il letto era ormai coperto dal numero di vestiti che aveva provato e riprovato. Ne aveva anche acquistato uno al negozio dell’albergo, ma alla fine optò per un abito di maglia di lana che aveva l’innegabile qualità di non lasciare nulla all’immaginazione sulle proprie forme. Stava affrontando la serata con la stessa eccitazione di un primo appuntamento. Se ne rese conto e si sedette sul letto per assaporare la vergogna di quella sensazione adolescenziale, prima di decidere che non di eccitazione, ma di semplice sete di vendetta si trattava.

In quel momento squillò il telefono. Con tono annoiato riuscì a liquidare Riccardo raccontandogli del congresso, non lo avrebbe certo potuto mettere al corrente su quello che stava combinando. E lui infatti, ottenute le rassicurazioni sul suo buono stato di salute, le passò le figlie con la fretta di chi si era liberato del peso di trovare qualche argomento di conversazione interessante.

Terminata la telefonata di rito con la famiglia, Diana scese nella hall e fu subito accolta dal rumoroso fischio di Donita.

― Cazzo Palmieri! Tu non me la racconti giusta. Vestita così, altro che vendetta, per un uomo sei il regalo di una vita!

― La migliore vendetta invece è proprio mostrargli cosa si perde a fare lo stronzo.

― Se tu non fossi così allocca da voler sempre rispettare i tuoi cazzo di codici morali, Palmieri, saresti una mangiauomini da sballo. Anch’io una volta ho provato a far vedere al mio secondo marito cosa si sarebbe perso facendo lo stronzo. È stato proprio quando è scappato con la mia vicina di casa.

― Andiamo Donita, ci attendono.

― Attendono te, io sono la brutta sorpresa.

― Ti racconto la situazione strada facendo. Mi raccomando, ti voglio al massimo della forma stasera.

― Li stenderò in cinque minuti, sai che ne sono capace.

― Sto già provando pena per loro…

― Stronza.

― Buffona.

E, ridendo, uscirono dall’albergo.

 

Quando arrivarono al ristorante, il locale era ancora pressoché vuoto. Vennero accolte da un cameriere giapponese che si esprimeva a gesti e grandi sorrisi, e vennero accompagnate a un tavolo che si rivelò essere riservato a nome della Inari. Probabilmente Boyle e quelli della MedStyle non si erano poi dati tanta pena a cercare Barson, visto che l’uomo era rintracciabilissimo e lasciava segni di sé ovunque. Donita si guardò intorno e sussurrò all’orecchio di Diana Ti confesso che è la prima volta in vita mia che metto piede in un ristorante giapponese.

Diana apprese la notizia con grande soddisfazione, perché sapeva quanto l’amica dava il meglio di sé ― o il peggio, a seconda dei punti di vista ― nelle situazioni di imbarazzo.

Donita di fatto prese un menu e cominciò a leggere a voce alta i nomi che le sembravano più strambi, ovviamente condendo il tutto con una vocina caricaturale.

― Sashimi! Cirashi! Nighiri! Uramaki! Temaki! Oppure, che dici Palmieri, ci facciamo un bel Futoraki?

― Futomaki, con la m. E stai facendo l’accento cinese Donita, qui siamo in Giappone.

― Cazzo Palmieri, sai pure le lingue orientali. Dimmi almeno che hai una gamba di legno o raccontami una qualche tua disgrazia, se no cominci davvero a starmi antipatica!

― Non so il giapponese, semplicemente ho messo le lenti a contatto. Tu invece ti sei dimenticata gli occhiali come tuo solito.

― Dov’è la Fini? Non c’è mai quando serve quel manico di scopa! Ho dato a lei i miei occhiali, tu credi si sia ricordata di ridarmeli?

― Tu glieli hai chiesti?

― Cazzo Palmieri, da che parte stai tu?

Le due stavano ancora ridacchiando quando arrivò la donna che aveva fatto l’invito nel pomeriggio, accompagnata da un’altra signora molto più anziana che Diana era certa di aver già visto. Il tavolo rotondo lasciava presagire un quinto commensale che Diana ipotizzò potesse essere il suo uomo.

La donna si presentò come Gianna Cadeo, un nome che risuonò nella mente di Diana come la firmataria di qualche lavoro scientifico del suo settore, mentre l’altra porse a entrambe un Noi ci conosciamo vero? Sono Loredana Soresina al quale non poterono che ribattere Si certo, ci siamo già incontrate.

Le due donne si sedettero, e quando una cameriera minuta arrivò per portare altri menu, Diana stava per dire che attendevano ancora qualcuno, ma Gianna la sovrastò dichiarando che erano pronte a ordinare. Resasi conto del disappunto di Diana, partì all’attacco.

― Andrea non sarà con noi stasera, dottoressa Palmieri. Allo stato delle cose non è prudente. Mi ha incaricato di parlarle. Vedo che ha portato anche compagnia.

― La dottoressa Donita Gardoni può benissimo partecipare a questa conversazione. Anche perché, se mi permette, non sappiamo ancora di cosa dobbiamo parlare. Io non ho ancora mai incontrato Barson e qui tutti mi parlano come se avessimo tante cose in comune.

Loredana intervenne a sostegno di Donita.

― Gianna, conosco bene la dottoressa Gardoni, è una persona di cui ci si può fidare.

Donita gonfiò il petto.

― Certo! Lo diceva sempre il mio primo marito alla sua amante per rassicurarla. Aveva ragione, non l’ho ammazzata infatti. Le ho fatto di peggio in ogni caso: gliel’ho lasciato.

Gianna Cadeo guardò Donita con l’aria di chi stava cercando di far collimare la rassicurante descrizione di Loredana con quello strano essere vestito con un improbabile completo giallo canarino che gongolava sulla sedia, felice di aver avuto l’occasione di sparare una delle sue freddure sui passati mariti. Si rigirò verso Diana, quasi a simboleggiare il fatto che era comunque convinta che si potesse continuare anche in presenza di quell’ospite inatteso, e con aria professionale riprese a parlare.

― Vediamo: Diana Palmieri. Pediatra. Brava, seria e apprezzata.

― E pure strafiga ― interruppe Donita.

Gianna sbuffò, ma si decise ad accettare il gioco.

― Sì, decisamente di bella presenza. E soprattutto da sempre avulsa dalle guerre politiche nel mondo degli ospedali.

Quest’ultima considerazione sorprese le due donne, e stavolta persino Donita indietreggiò sulla sedia accigliata e sulla difensiva. Diana cercò di seguire il discorso per poter capire di più della situazione.

― Non amo misurarmelo sempre come gli uomini, se è questo che intende. E non amo le donne che partecipano volentieri alla gara.

― Io invece amo misurarlo agli uomini, ma questa è un’altra storia.

Stavolta risero tutte alla battuta di Donita, per cui Gianna dovette definitivamente arrendersi e abbozzare un sorriso più o meno sincero prima di riprendere faticosamente il discorso.

― Per questo lei è perfetta. Cosa l’abbia portata a essere scelta da Barson non mi interessa, so solo che lei è il profilo ideale per la nostra causa.

Ogni frase della Cadeo cadeva sulla tavola come un macigno. L’idea di Essere stata scelta da Barson irritò a dismisura Diana, mentre Donita la scrutava con uno sguardo che significava Come sarebbe a dire che ti ha scelta? Mi hai nascosto qualcosa, Diana? Prima che l’amica potesse stemperare la tensione con un’altra battuta, decise di attaccare a sua volta.

― La cosa che più mi rattrista è notare che per tutti conoscere il signor Barson vuol dire esserci andata a letto. È davvero così irresistibile?

― Speriamo ― urlò Donita.

Gianna non perse la calma.

― Mi scusi, non alludevo a niente del genere. Sull’avvenenza del signor Barson la lascerò giudicare di persona se stasera troviamo un accordo.

― Causa. Accordo. Di che mi sta parlando dottoressa Cadeo?

Gianna fu finalmente soddisfatta di aver captato l’attenzione di tutte, visto che anche Donita aveva smesso di parlare. Attese qualche secondo, e quasi a voler gustare il momento, suggerì di procedere prima con le ordinazioni.

― Consiglio di prendere un paio di belle barche per tutti.

― Oh, non si preoccupi, noi torniamo in albergo a piedi ― rispose Donita seria, tanto che tutti capirono che quella non era affatto una battuta.

Diana si sentì in dovere di avvertire l’amica.

― Donita, la barca è un piatto misto giapponese. Le vedi quelle belle barchette di legno là in fondo?

― Oh! Non le avevo viste, credevo che la dottoressa Cadeo si preoccupasse che il brutto tempo ci impedisse di tornare in albergo!

Risero tutte stavolta. Ma Diana cominciava a diventare impaziente. Gianna lo notò e decise che era il momento giusto per le spiegazioni.

― Dottoressa Palmieri, noi siamo colleghe. Noi, come lei, combattiamo quotidianamente per la salute degli esseri che più di ogni altro la società dovrebbe salvaguardare e proteggere: i bambini. Noi, come lei, verifichiamo ogni giorno quanto invece le madri siano lasciate sole, costrette a tornare al lavoro solo dopo poche settimane di maternità, non supportate da mariti all’altezza del ruolo di padre…

― No, no, neppure del ruolo di marito direi! ― aggiunse Donita.

― Inoltre, come lei ben sa, abbandonate da qualsivoglia istituzione pubblica. Lo stato si lava la coscienza con qualche leggera detassazione e aggiunte sulla busta paga. Sarò pure un’amante dell’utopia, come dice Barson, ma resto ancora convinta che i bambini siano figli di tutta la società e non solo dei loro genitori, e come tali dovrebbero essere trattati.

Diana ascoltò con interesse, senza però abbassare la guardia.

― Lei sa già che sono d’accordo con lei. Vedo che ha preso informazioni su di me, e saprà già che partecipo a svariate associazioni di mamme che si riuniscono per aiutarsi. E sono convinta che noi pediatri non dobbiamo restarne fuori.

― Ecco. È questo il punto. Le iniziative arrivano dalle mamme. Per disperazione, mentre la società latita. È normale che le persone vengano toccate da un problema solo se ne sono pienamente coinvolte. I bambini sono il bene primario della nostra società, non possono essere un problema di pochi. I bambini sono una responsabilità di tutti.

― Cazzo, forte la Cadeo! ― urlò esaltata Donita.

Diana non le diede corda e continuò a seguire il discorso.

― Lei ha ragione, ma allo stato delle cose la maternità continua a non essere di moda. Avere un bambino continua a essere considerato un intralcio. Ma tutto questo dove dovrebbe portarci questa sera, dottoressa Cadeo?

― Vede Palmieri, sono sufficientemente realista da sapere che sulla mentalità comune è difficile intervenire. Ma qualcosa di più pratico lo possiamo fare. Soprattutto noi medici.

― Noi facciamo già il nostro lavoro, e farlo con passione e coscienza è il contributo più grande che possiamo dare.

― No. Non basta più. Noi siamo dentro le istituzioni, l’ospedale è la punta di una piramide che un normale cittadino non può scalare, e soprattutto non può controllare. Noi invece siamo nella posizione per poterlo fare.

― Controllare? Cosa nello specifico?

Gianna prese la posizione di chi è giunta al momento cruciale di un discorso.

― Vede dottoressa Palmieri, non solo la nostra società si disinteressa dei suoi figli, ma è modellata in modo tale che chiunque può danneggiarli e farla franca. Le istituzioni dovrebbero vigilare su questo, ma siamo tutte grandi abbastanza da non stare neanche più a raccontarcela questa favola. Per questo bisogna che chi ha la coscienza del problema e la possibilità di toccarlo con mano, si muova autonomamente.

Diana e Donita si guardarono, ma nessuna delle due aveva l’aria di aver ben colto il nocciolo della questione. Diana provò ancora a capire.

― Mi sta proponendo di entrare in qualche associazione, se capisco bene? Di quale si tratta?

― In un certo senso. Ma io non le propongo nessuna tessera. E se le chiedessi se ha mai sentito parlare della Izanami, immagino che mi dirà di no.

Donita fece una smorfia che evidenziava quanto non ci stesse più capendo nulla. Anche Diana fu delusa da quel nome misterioso.

― Izanami? No, mai sentita. Un altro nome giapponese, da dove deriva tutto questo amore per la mitologia nipponica?

― Un’ossessione di Barson. Insiste sempre sul fatto che la mitologia giapponese sia una delle meno trascendentali, la più legata ai problemi terreni. Le sue divinità sono decisamente antropomorfe, ancor più rappresentative dei pregi e difetti dell’uomo rispetto a quelle della mitologia greca. La cultura giapponese mette sempre l’uomo al centro di tutto, rappresenta con eguale efficacia la bestialità così come la meravigliosa poesia di cui siamo capaci. Ci insegna che non dobbiamo avere paura dei nostri limiti. Non idealizza i nostri pregi creando un regno dei cieli dove saremo perfetti, ma rende poetiche anche le nostre peggiori emozioni. Ed è anche una delle poche mitologie dove non esiste un padre creatore che salta da una femmina all’altra, ma ha all’origine una coppia, uomo e donna, fratelli e anche amanti senza che l’incesto possa essere uno scandalo, ugualmente divini e ugualmente creatori dell’universo e genitori di tutte le altre divinità. Izanagi è il padre, Izanami la madre. E sono loro che, secondo il mito, decisero di abbandonare il Regno dei Cieli per vivere sulla terra con gli uomini.

― Sono davvero ignorante in materia, ma sembra interessante. Mi sembra che voglia farmi capire che la cultura giapponese annulla il concetto di peccato originale, e anzi, i peccati degli uomini fanno parte della divinità. Cosa c’entra questo con i bambini?

― In un certo senso c’entra eccome. Izanami è la mamma di tutto, ma non ha paura del male che alberga nelle sue creature. Lo considera parte dell’essere che ha generato, tanto da rimanerne uccisa. Morirà infatti ustionata generando il Dio del Fuoco, ben consapevole del rischio che correva. Una lezione importante.

― In che senso?

― Lei crede che anche gli uomini peggiori del mondo siano stati dolci e amabili bambini prima di diventare dei carnefici, giusto?

― Certo. Ogni tanto mi chiedo se tra i bambini che visito ci possa essere un futuro Hitler.

― Poi li guarda e vede in loro solo l’innocenza…

― Ovvio. Guai se non fosse così.

― Guai solo perché l’occidente identifica il bambino con la purezza. E di conseguenza si sconvolge a dismisura quando scopre che il male alberga anche in lui, finendo quindi per colpevolizzare chi non corrisponde a quell’ideale di perfezione. La cultura giapponese invece considera fin da subito il bambino come un essere umano, con il bene e il male che ci caratterizza. Se legge i manga, i fumetti giapponesi, il mondo infantile è sempre descritto anche nei suoi aspetti più torbidi, per nulla idealizzato. Izanami genera un bambino che per sua stessa natura la ucciderà, ma non per questo evita di farlo, e non per questo ha amato di meno quella creatura. La distinzione tra bene e male non interessa alla cultura giapponese.

Donita ascoltava distratta dal pesce crudo ma senza più intervenire. Ogni tanto emetteva un mugolio di approvazione per quello che stava mangiando, ma alla fine di questa piccola lezione guardò Diana curiosa di misurarne la reazione. Anche Loredana Soresina seguiva il discorso limitandosi ad annuire in segno di approvazione. Diana invece non si spogliò mai della propria espressione accigliata.

― Tutto molto bello, ma questo dovrebbe forse chiarirmi l’attività della vostra associazione?

― Noi partiamo dal concetto che il male è parte integrante del nostro essere uomo, per cui anche una volta vestito il camice, non ne rimaniamo esenti. Nel nostro mondo però il vero male esiste, e viene dall’alto. Viene dalla cattiva amministrazione della cosa pubblica, dalle aziende senza scrupoli che lucrano sulla nostra missione, dagli imbroglioni che non hanno nessuna remora a mettere in pericolo la salute e la vita delle persone per il loro guadagno. E dai colleghi che tradiscono la nostra missione originaria.

― Tradiscono anche le mogli se è per questo… ― bofonchiò Donita, contenta di poter di nuovo toccare l’argomento.

Diana però non distolse lo sguardo. Non aveva neppure toccato il cibo nel suo piatto.

― Secondo la sua filosofia, se anche gli imbroglioni sono perdonabili in quanto umani, allora non dovreste neanche combatterli.

― Infatti, noi non combattiamo le persone. Noi combattiamo il sistema che costringe gli uomini ad agire per conto del male. Noi combattiamo il Regno dei Cieli.

― Ah, be’, partite dal basso proprio! ― rise Donita, ottenendo però che finalmente Gianna la considerasse nella discussione e le rispondesse direttamente.

― Dottoressa Gardoni, il basso siamo noi, medici che non partecipano alla grande spartizione del potere e dei soldi che girano nella sanità. È lei, è la dottoressa Palmieri, è chiunque lavora ogni giorno seguendo una missione che è esclusivamente quella per cui abbiamo tutte giurato il giorno della laurea.

― Oh, io il giorno della laurea ero talmente ubriaca che se al posto di Ippocrate mi avessero fatto giurare su Antonio Banderas ne sarei pure stata felice!

Risero ancora, ma stavolta fu la stessa Donita a riportare serietà sul discorso.

― In ogni caso, dottoressa Cadeo, quello che ci sta raccontando è qualcosa che viviamo tutti i giorni e che forse non abbiamo neanche più voglia di ascoltare. Lei può metterci dentro tutte le storielle orientali che vuole, ammansirci con questo ottimo pesce, ma se non ci dice di cosa stiamo parlando, possiamo anche scherzare per tutta la sera senza arrivare a nulla.

Diana incalzò: ― Inoltre, mi deve spiegare come mai non vi abbiamo mai sentito nominare?

― Esistiamo dal 2006. E non siamo un’associazione, quanto una società segreta.

Diana e Donita trovarono una perfetta sincronia mentre emettevano all’unisono Segreta!? Gianna però non si scompose.

― Come potete ben intuire, il Regno dei Cieli non è molto contento che esista un collegamento tra tutti i medici e professionisti in sanità per combattere la corruzione del suo sistema. Alla luce del giorno, tutto questo finirebbe subito.

― Ci sta proponendo un’attività illecita?

― Dipende da che parte sta il lecito secondo voi.

Diana la guardò con aria minacciosa. ― Cosa le assicura che io ora non esca da questo ristorante e vi denunci tutti?

― Glielo leggo negli occhi che non lo farà.

― Troppo poco. Una persona che gestisce un’attività carbonara ha bisogno di maggiori garanzie di uno sguardo. Mi conoscete solo da oggi.

― Non è vero. La stiamo studiando da quattro anni, dottoressa Palmieri.

 

― Cazzo Palmieri, tutto questo va oltre le mie più rosee aspettative. Mi proponi di evirare un porco e finiamo a scannare un intero porcile!

 

Donita non aveva smesso un attimo di saltellarle intorno mentre tornavano in albergo. Era eccitata all’idea che qualcuno le avesse coinvolte in qualcosa di più della solita riunione tra colleghi. Per lei era fuori discussione che non si partecipasse alla guerra della Izanami. Diana invece non riusciva a mettere ordine tra le idee. Il numero di domande che avrebbe ancora voluto fare era infinito, e tutte roteavano vorticosamente nella sua testa. Le sembrava davvero strano che uno squalo come Barson potesse aver dato vita a un club di buoni samaritani senza un doppio fine losco o interessi economici evidenti.

Gianna non aveva voluto dire di più, forse perché Diana aveva chiesto tempo prima di aderire e aveva posto come condizione di poter finalmente incontrare Barson e guardarlo negli occhi. Erano rimaste d’accordo che l’indomani lo avrebbe incontrato al congresso in gran segreto. Doveva solo aspettare che la ricontattassero. Il non poter gestire la situazione la innervosiva, ma ormai la curiosità aveva definitivamente vinto su ogni forma di prudenza.

Lei e Donita si congedarono nella hall dell’albergo. Diana si sentiva davvero stanca mentre l’ascensore la portava al suo piano. Non era abituata a tanti avvenimenti concentrati in una sola giornata. Ebbe nostalgia della sua tranquillità e quasi si pentì di aver innescato quello stupido gioco, soprattutto ora che Donita ne era pienamente coinvolta e tentava di convincerla a fare le paladine della giustizia contro i mali della sanità. Sapeva che sarebbe stato impossibile dirle di no.

Quando entrò in camera ci mise pochissimo per rendersi conto che c’era qualcosa che non andava. Non aveva ancora acceso la luce, che già aveva inciampato in una delle sue scarpe, e lei era troppo ordinata per poter pensare di averne dimenticata una proprio davanti alla porta. Quando accese la luce ebbe la conferma di ciò che temeva: qualcuno era entrato in camera e aveva rovistato nei suoi cassetti, e alcuni suoi vestiti erano ancora per terra. Quando fu sul punto di terrorizzarsi, notò un biglietto sul tavolino.

 

Lei insulta la mia intelligenza, Diana. Confido ancora che tornerà presto a trovarmi, perché questa cosa si possa risolvere senza troppi clamori.

Boyle

3 recensioni per Il paradosso di Ippocrate

  1. wlmedizioni – Settembre 17, 2022

    Recensione di Marco Denti sunta da Booksnormali 12 luglio 2022
    […] Con Il paradosso di Ippocrate non c’è da stare tranquilli: le mutazioni sono dietro l’angolo, niente è definitivo, solido, concreto. La realtà, agli occhi dei suoi protagonisti, anche di quelli di Diana Palmieri, non è mai così come appare […] la vera valuta di scambio è la fiducia ed è qui che si affronta il livello più approfondito, perché Il paradosso di Ippocrate tende ad aggirare gli schemi e a rivelarsi come una matrioska che, un colpo di scena dopo l’altro, plasma i personaggi. La trasformazione tocca Diana quanto il suo volitivo alter ego, Donita, le maschere cedono in rapida sequenza via via che i contorni noir, compresi due omicidi, avvolgono Il paradosso di Ippocrate. La metamorfosi più evidente la subisce proprio Diana Palmieri che, senza volerlo, si ritrova al centro di un’asfissiante nebulosa di forme di potere, diventando a sua volta protagonista degli eventi. I cambiamenti sono radicali, il complotto non diventa mai chiaro (e questo è forse il significato ultimo del romanzo di Nicola Gervasini) e i nodi costituiscono il senso della trama ed è impossibile svelare di più. […]

  2. wlmedizioni – Settembre 17, 2022

    Recensione di Marcello Matranga sunta da Mescalina.it 6 Settembre 2022
    […] Il racconto si snoda fino ad una non scontata conclusione, dove il riscatto (apparente?) e la vendetta troveranno una loro strada, consegnandoci una storia che una certezza ce la lascia, ovvero quella di non poter dar nulla per certo, nemmeno le più ferree convinzioni anche quelle su noi stessi e su quanto crediamo assodato. E qui Gervasini centra in pieno il bersaglio.

  3. wlmedizioni – Settembre 17, 2022

    Recensione di Marina Montesano sunta dall’intervista su TomTomRock 29 Agosto 2022
    […] Il tema è intrigante, il libro si legge di filato e i riferimenti musicali non mancano. […]

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