Anteprima
― Della Seta!… non prima di un mese
― Della Seta!
Il nome mi risuona nelle orecchie mentre sto per finire il livello del gioco, sul telefonino, che mi sta facendo compagnia in sala d’attesa. Sono arrivato alle otto, e ora sono le nove e mezza.
L’attesa è stata dedicata anche a qualche sbirciata su Google.
Inizialmente avevo messo su qualche brano musicale, però i Rolling Stones nelle cuffie — era Brown Sugar, figuriamoci… — non mi avrebbero fatto sentire le chiamate dell’infermiere.
Dopo un po’ mi si è seduto a fianco un uomo di mezza età, visibilmente preoccupato. Muoveva gli occhi in ogni direzione, si torceva le mani, prendeva il giornale, leggeva due righe e lo rimetteva via. A un certo punto i nostri sguardi si sono incrociati e io gli ho sorriso.
― Brutto posto, eh? ― mi ha fatto, con espressione sconsolata.
― E già. Però certe cose vanno fatte.
― Deve fare qualche esame? ― mi ha chiesto dopo avermi scrutato da capo a piedi. Evidentemente devo avergli ispirato fiducia.
― Sì… ― Ho esitato un attimo, poi il pensiero che in fondo siamo tutti nella stessa barca mi ha spinto a rispondere: ― Biopsia prostatica. Me l’ha prescritta l’urologo.
Lui ha abbassato gli occhi, in segno di partecipazione. ― Io l’ho fatta un mesetto fa. Adesso devo ritirare il referto.
― Preoccupato? ― gli ho chiesto per alleviare la tensione, rendendomi però subito conto della stupidità della domanda.
― Be’, che vuole… Sono momenti importanti…
Hanno fatto seguito alcuni minuti di conversazione, nei quali ci siamo rivelate le reciproche professioni — lui ex autista di ATAC — e abbiamo parlato del più e del meno, per tenerci su. Naturalmente, argomento di conversazione è stato anche l’effetto che fa la biopsia, se sia dolorosa o solo fastidiosa. ― Be’, ― ha precisato lui, ridacchiando, ― dolorosa non direi… Certo, è un po’ imbarazzante. Ti mettono lì come una partoriente…
A quel punto, le sue parole sono state interrotte dalla voce dell’infermiere, che si era affacciato sulla porta della sala d’aspetto: ― Scianchi!
L’uomo con cui stavo parlando ha avuto un sussulto. Come un galletto nel pollaio ha tirato su la testa e ha garrito: ― Ha detto Scianchi?
― È lei? ― ha chiesto l’infermiere, e poi al suo cenno di assenso ha proseguito: ― Venga.
L’uomo mi ha rivolto un leggero cenno ed è colato giù dalla sedia, seguendo l’infermiere al di là della porta, seguito dal mio: ― In bocca al lupo.
Sorridendo e augurandogli ogni bene ho ripreso ad armeggiare con il cellulare.
Dopo circa una mezz’ora, un raggiante Scianchi mi si è presentato davanti: ― Negativo! ― ha detto con una voce che non si è preoccupato di mantenere bassa. Anche gli altri presenti nella sala d’aspetto hanno sorriso.
― Davvero? Sono contento ― gli ho risposto.
Al che lui, quasi pensasse che io non credessi alle sue parole, mi ha mostrato il referto. ― Vede? Negativo, in entrambi i lobi.
― Magnifico ― ho commentato, con il desiderio intimo che la cosa sia di buon auspicio per me. ― Pensi, non sapevo neppure che ci fossero due lobi, là dentro. Ma ci vuole tutto questo tempo per avere il referto?
― La risposta me l’ha data subito, quello al computer, poi sono stato un po’ a chiacchierare con lui. Fa piacere trovare ogni tanto qualcuno che si interessa alle faccende dei pazienti.
Raggiante, mi ha stretto la mano augurandomi buona fortuna ed è uscito dalla sala, accompagnato dagli sguardi dei presenti, alcuni lieti, alcuni invidiosi. Il mio era un misto dei due.
E adesso, è il mio nome a essere pronunciato.
Oltrepasso la soglia della sala, e all’improvviso mi trovo proiettato dall’ambiente-del-mondo-esterno-nel-quale-dopo-tutto-sono-qui-in-attesa-e-in-qualsiasi-momento-potrei-andarmene alla zona dell’adesso-sei-qui-ti-devi-sottoporre-a-tutto-quello-che-ti-faremo-a-pena-di-passare-per-vigliacco.
Non sono piacevoli quei pochi passi che mi conducono alla scrivania, dove un ometto esile — il cartellino appuntato sul petto recita: Edoardo – Infermiere — sta seduto di fronte al monitor. Sento netta quella sensazione di aver superato un varco, e di essere passato al di là dello specchio, come una Alice troppo cresciuta. Dal suo computer, una musichetta tenuta correttamente molto bassa: tendo le orecchie, ma non riesco a individuare il brano. Mi vede e chiede conferma del nome: ― Della Seta? ― Io annuisco e lui mi consegna un fascicolo.
― Prego ― mi fa, indicandomi una sedia al suo fianco. ― Attenda qui qualche minuto, intanto che completo la scheda.
Seguono alcune domande che esulano anche dall’ambito strettamente sanitario, ma che servono evidentemente ad avere un quadro completo del paziente: indirizzo, professione: ― Commissario di Polizia ―; composizione della famiglia: ― Divorziato, una figlia ―, livello di istruzione: ― Laurea in Giurisprudenza, specializzazione in Criminologia.
Mentre lui digita i dati al computer, cerco di alleviare quel po’ di tensione che sento nell’aria, accennando all’uomo che mi ha preceduto: ― A quello è andata bene, eh? A quello… Scianchi.
Con un cenno della testa indico il mondo esterno, e l’infermiere alza la testa dalla tastiera fissandomi con occhi quasi lucidi: una partecipazione umana che mi commuove, in questo posto consacrato alla sofferenza umana.
Alla fine, soddisfatto, mi indica il corridoio che svolta verso la mia destra: ― Prego: ultima stanza a sinistra.
Quando mi avvio, lui affonda di nuovo gli occhi sullo schermo. Adesso, in un attimo di silenzio, riesco a percepire il brano musicale: Killing me softly with his song… canta Roberta Flack, accompagnandomi verso l’analisi imbarazzante.
Quello che segue effettivamente non è piacevole, ma non è neppure particolarmente doloroso: aveva ragione quello Scianchi, ormai libero dalle preoccupazioni che invece, sotterraneamente, mi assillano. La sensazione fastidiosa di mettere il proprio corpo nelle mani altrui viene mitigata dall’aura di professionalità che, tutto sommato, aleggia nella stanza degli esami. Il dottore ha anche un approccio ilare, si vede che cerca di tenere su di morale il paziente, mentre lo fruga all’interno, pizzicando via leggeri campioni di tessuto: ― Ecco, ancora un attimo, quasi finito… Ecco, questo è l’ultimo.
È un uomo imponente, con folti capelli e mani pelose: non lo diresti un sottile ricercatore di neoplasie. Portano via brandelli di tessuto proprio a me: Della Seta. Che imperdonabile affronto.
Alla fine, concluso il rito, vengo congedato con l’indicazione di telefonare non prima di un mese.
Rientro in ufficio… Ecco fatto
Rientro in ufficio, dopo la visita. Fisicamente non sto al meglio, ma un commissario della squadra omicidi non può perdere una giornata di servizio solo per una visita medica. I colleghi naturalmente si informano sul mio stato di salute e io rispondo a tutti, con più o meno particolari a seconda del livello di confidenza che ho con le varie persone. E così la mattinata passa con la sensazione di quella violazione del corpo che gradualmente svanisce, per essere accantonata nella zona del cervello dove tutto viene archiviato: questo episodio finirà nel fascicolo interno Visite mediche alle quali mi sono sottoposto. Tutto resterà lì per essere richiamato all’attenzione, all’occorrenza: ovviamente, la percezione che me ne rimarrà dipenderà in grande misura dall’esito.
Però il fastidio rimane, e dopo pranzo preferisco tornare a casa a riposare.
Mi sdraio sul divano, e guardo lo stereo, con il mobile dietro che espone centinaia e centinaia di cd. Mi soffermo davanti allo scaffale più frequentato, e cerco mentalmente il brano dei Rolling che possa adattarsi alla mattinata. ― Vediamo un po’… ― Il dito scorre sui dorsi di plastica, va su e giù come quello del professore che scorreva sul registro, al liceo. Il pensiero mi porta un leggero sorriso, poi la solita fitta di nostalgia, che cerco di accantonare nella ricerca. Una sorta di memoria braille/ancestrale mi comunica i contenuti dei vari supporti. Ecco, adesso mi è venuto in mente. È un brano minore, non un granché, il cui titolo però mi sembra perfetto: Down in the Hole. Giù nel buco. Ecco fatto.
Stamattina appena arrivo… Armando Scianchi.
Stamattina, appena arrivo, il vice questore Latella mi chiama dalla porta del suo ufficio: ― Fausto! Vieni un attimo, per piacere.
Mi accomodo sulla sedia davanti alla sua scrivania, e rispondo negativamente all’offerta di caffè. ― Tutto bene? Ti sei rimesso? ― mi domanda con una certa premura. Ha una corporatura massiccia, pochi capelli ma occhi vivaci.
― A posto, grazie. Adesso mi tocca aspettare l’esito.
― Andrà tutto bene, non ti preoccupare ― mi dice. Per un attimo aleggia fra di noi un’aura di mistero, come se ci stessimo entrambi chiedendo: Come fa a dirlo? È forse un oncologo? Come può un vice questore di polizia sapere cosa cova in un organismo altrui?
Poi, entra in modalità professionale: ― Hanno chiamato cinque minuti fa. C’è un morto in un condominio di via Casilina: ha tutta l’apparenza di un omicidio. La macchina giù è pronta. Credo che il medico legale sia in viaggio. Ci vai?
Sorrido alla retoricità del quesito. Alcuni capi usano il modo imperativo, nelle loro richieste: Vai qui, fai questo, riferiscimi subito… Alcuni invece — e Latella è fra questi — preferiscono usare il modo indicativo, con l’inflessione interrogativa: Ci vai? Equivale naturalmente a Vacci. È solo detto in maniera più gentile, ma probabilmente è anche più incisivo. È più difficile, tra persone civili, resistere a una richiesta formalmente gentile che a un ordine perentorio. Anzi mi dico, mentre attraverso il corridoio, rievocando i miei studi di filosofia del diritto. Latella non ha usato il modo indicativo, ma piuttosto il performativo, che si utilizza nella stesura dei testi di legge. Tizio fa questo, Caio fa quello… equivale a dire: Tizio deve fare questo, anzi: Tizio non può non fare questo; è un modo verbale ancora più cogente dell’imperativo, perché rappresenta semplicemente la realtà. La necessità insita nelle cose.
Comunque, con Latella non ho mai avuto problemi: una persona seria, un capo che trasuda carisma e professionalità. Sono contento di chiudere la mia carriera con lui. Già, chiudere la carriera… Mentre entro in ascensore e percorro il tragitto fino al parcheggio — il tragitto tante volte fatto, che è ormai diventato un cammino inavvertito, di quelli che non ti accorgi nemmeno di aver fatto fino alla fine: Ma come? Già sono arrivato? ti domandi, frugando nella memoria per rievocare quei passi di cui non hai alcuna contezza — mi viene da pensare alla prima volta che mi ero avventurato nel primo commissariato della mia vita.
La macchina guidata dall’agente Marsano sguscia nel traffico, allontanando con la sirena le automobili ammucchiate nelle vie. Le case che scorrono a lato mi fanno rievocare episodi e vicende, vittorie e sconfitte: persone che ho salvato da accuse ingiuste, ma anche errori che ho commesso, mettendo per un periodo alcuni innocenti sotto una cattiva luce. Be’, mi dico, credo che in fondo sia inevitabile. Succede a chiunque, sul lavoro, anche se il mio, di lavoro, assomiglia più a quello di un medico che a quello di un impiegato, un lavoro in cui gli errori hanno conseguenze che possono essere radicali, certo mi dico, mentre l’auto svolta su Ponte Casilino e svicola tra un furgone e il solito sciame di motorini. Fortunatamente le mie decisioni non hanno mai messo nessuno in guai seri. Un po’ di apprensione, qualche baruffa che si è risolta sempre al meglio. Posso dire di essere stato bravo, o fortunato? Mi definisco equilibrato, ecco. Sì, forse è questo l’aggettivo giusto. Nei casi di omicidio mi sono sempre astenuto dalle decisioni affrettate, non ho mai voluto accusare qualcuno sotto l’influsso delle prime apparenze. Conta più l’abilità o la fortuna? Vecchio dilemma: diciamo che sulla seconda non ci si sputa sopra.
Ma è ora di concludere le elucubrazioni.
Oltretutto, l’agente alla guida, che è in servizio con noi da poco tempo, si sarà fatto l’immagine di un musone, visto che fino ad ora non ho fatto altro che rimuginare. Sarà l’età.
Lo osservo: ha l’aspetto di un bonaccione, uno di quelli che vedi al ristorante a un tavolo vicino, immerso nella convivialità con espressione soddisfatta. Faccio per aprire bocca per avviare una conversazione qualunque, ma lui mi previene.
― Ecco dottore, ― interviene scalando le marce, ― il posto è questo. Vede? C’è già Bonocore.
Davanti al portone staziona un altro agente, che mi saluta e mi accompagna su per le scale. La porta di un appartamento del secondo piano è aperta, piantonata da un’altra guardia in divisa. Dall’interno viene un tramestio: entro e osservo subito un fotografo che scatta immagini da varie angolature a un corpo disteso a terra, al centro di una sala da pranzo dimessa: il volto, appoggiato al pavimento, non è in vista; sulla nuca, rivolta verso l’alto, una grossa macchia nerastra. Mi guardo intorno, valuto gli ambienti della casa: tappezzeria con immagini palustri, mobili pesanti evidentemente retaggio di generazioni passate, tappeti sdruciti, tendaggi raccolti al centro con ferma-tende a forma di fiore. Un ambiente ordinario, nel quale la persona ordinaria che adesso giace ai miei piedi passava evidentemente giornate ordinarie di una vita ordinaria, prima di finire in un modo fuori dell’ordinario.
Vicino alla finestra, il medico legale sta digitando qualcosa su un portatile appoggiato a un tavolino.
― Fausto, ― mi saluta, ― ti aspettavo.
― Ciao, Saverio. Eri sicuro che mandassero me?
― Mah, più o meno me l’aspettavo.
Il dottor Coppola è un uomo alto, con l’aspetto alquanto svagato ma molto capace nel suo mestiere. Ci conosciamo ormai da molti anni: abbiamo giocato a tennis più di una volta, e sono riuscito perfino a portarlo una sera in un teatro in cui una cover-band suonava brani dei Rolling Stones. Non mi era sembrato un grande appassionato, ma ha sicuramente apprezzato. Vive una vita piuttosto solitaria, a volte anche un po’ astiosa, da quando la moglie è morta in un incidente di macchina. Ha un figlio che lavora fuori Roma, mi sembra a Imola.
― Quando l’hanno trovato? ― chiedo.
― Era divorziato, viveva con il figlio, che aveva il turno di notte. Quando è tornato stamattina presto l’ha trovato lì sul pavimento…
― E il figlio?
― Sta di là. ― Coppola accenna con la testa a una porta che dà sulla mia destra. ― C’è un’agente con lui, che sta cercando di consolarlo.
Consolarlo è una parola grossa in un caso del genere mi dico, mentre mi avvio nell’altra stanza. Coppola nel frattempo mi assicura che mi riferirà gli esiti degli accertamenti.
Una donna in divisa sta parlando con un ragazzo in lacrime seduto sul letto. A destra della porta, un armadio con le ante spalancate e i cassetti in disordine.
― Commissario… ― mi fa, alzandosi al mio apparire.
― Buon giorno, Pandolfi. Stia, stia.
Il ragazzo mi fissa da occhi acquosi, poi ricomincia a singhiozzare. Gli rivolgo qualche espressione di circostanza, fissando affascinato quel naso che non riesce a trattenere i propri umori. Nonostante anni di situazioni del genere, non riesco mai a trovare le parole.
― Pandolfi, venga un attimo.
Preferisco evitare al ragazzo di ripetere quello che già dolorosamente ha riferito. Questo come primo impatto: poi, magari, lo interrogheremo ancora.
Usciamo silenziosamente dalla stanza in cui il figlio della vittima sta cercando di rendersi conto dell’irrompere della realtà nella sua vita, e l’agente mi riferisce: ― Il ragazzo dice di essere rientrato verso le otto: fa il guardiano notturno in un magazzino di materiale edile, oltre il raccordo. Ha aperto la porta e per prima cosa visto il corpo del padre, lì al centro della stanza. Ha chiamato subito il 113, ed eccoci qua. È arrivata un’ambulanza, ma non c’era niente da fare. E così è venuto il dottor Coppola. Non c’è molto altro, per adesso.
― Il corpo è stato spostato?.
― Be’, il ragazzo ha riferito di averlo chiaramente toccato, l’ha abbracciato… Tutto quello che si fa in questi casi, sa? Poi il dottor Coppola l’ha esaminato.
― A che ora è uscito il ragazzo, ieri sera?
― Verso le nove.
― La porta era chiusa a chiave?
― Be’, il ragazzo ha detto che la porta era chiusa ma non c’erano mandate nella serratura. Anzi, la cosa gli è sembrata strana, perché il padre, quando lui stava fuori la notte, chiudeva a chiave ma poi toglieva le chiavi dall’interno per permettergli di rientrare. Invece questa volta non c’erano mandate.
― Hmm, come se qualcuno, dopo averlo ucciso, fosse uscito richiudendosi dietro la porta. Però questa persona era entrata senza violenza, mi pare. Non ho visto segni di effrazione sulla porta.
― Infatti. Probabilmente la vittima lo conosceva.
― E quell’armadio? Sembra un omicidio a scopo di rapina.
― Già. Il ragazzo dice che non sa bene quello che il padre conservava nei cassetti, quindi non può dire se l’assassino ha portato via qualcosa. Magari quando si riprenderà un po’ potrà fare mente locale…
Non c’è molto altro per il momento: così, dopo aver raccomandato all’agente di tornare da lui, vado dal medico legale.
― Un colpo violento alla nuca ― mi fa lui, asciugandosi le mani. ― Probabilmente è stato colpito all’improvviso alle spalle, e non si è accorto di nulla. ― Classica espressione che in genere vale come rassicurazione nei confronti dei parenti della vittima: Non se ne è neppure accorto.
― Tracce dell’arma?
― Nessuna. L’assassino deve averla portata via. Stando a quello che dice il ragazzo, non manca in casa nessun oggetto che potrebbe essere stato usato: non so, il piedistallo di qualche suppellettile, un grosso bastone…
― Ora della morte?
― Mah, non sono ancora sicuro ma direi prima di mezzanotte. Intorno alla ventidue, ventidue e trenta, diciamo.
― Quindi, come se l’assassino avesse aspettato l’uscita del figlio per suonare alla porta. La vittima l’ha fatto entrare, e poi è successo il fattaccio.
― Un ladro? Una rapina finita male? Ho dato un’occhiata di là e ho visto l’armadio tutto sottosopra.
― Al momento sembrerebbe, anche se mi pare strano che un uomo solo in casa, la sera, faccia entrare un rapinatore che poi lo uccide. Croce! ― chiamo, preso da un pensiero improvviso.
L’agente che stazionava sulla porta mi si accosta.
― Avete trovato telefoni?
― Sul tavolo c’era il cellulare della vittima, ma niente apparecchio fisso. Eppure il figlio riferisce che la vittima aveva un cordless: stava lì, vede? ― Indica un angolo della stanza, un mobiletto triangolare che ha tutto l’aspetto di un porta-telefono, che però presenta solo una base vuota. ― Lo abbiamo anche cercato in giro per l’appartamento, ma non c’è.
― E il cellulare?
― L’hanno già portato in centrale per esaminarlo.
― Però qualcuno ha fatto sparire il cordless; probabilmente dall’esame del cellulare non risulterà niente. Credo che l’arrivo dell’assassino sia stato preceduto da una telefonata al numero fisso: per questo ha fatto sparire l’apparecchio. Croce, chieda subito l’esame dei tabulati telefonici. A proposito: impronte digitali?
― Le stiamo rilevando, dottore.
Intanto che l’agente si apparta per chiamare la centrale, mi accosto a un lungo mobile sulla parete di fondo. Tra alcuni piatti e un orologio massiccio, vedo un foglio; lo prendo in mano: Referto biopsia prostatica.
― Ma guarda tu… ― mormoro, mentre l’occhio mi cade sul nome dell’intestatario: Armando Scianchi.
wlmedizioni –
Recensione di Alessandra Micheli del romanzo Gleason 6 di Mauro Cotone sunta dal blog Les Fleurs Du Mal 27 Giugno 2022
Una serie di inaspettati eventi si mettono in coda per turbare la tranquillità della vita da scapolo del commissario Della Seta […] Mauro Cotone, l’autore, ha consegnato al mondo un thriller rapido e ricco di colpi di scena, ad ogni pagina l’intreccio dei fili della trama si fa più complicato, portando il lettore a credere che non riuscirà mai ad indovinare chi è in realtà l’assassino. L’importante, però, è che ci arrivi l’abile commissario che, guidato dalle immancabili canzoni dei Rolling Stones, conduce le indagini in modo professionale e senza mai arrendersi […] L’autore è abile a mescolare gli aspetti più leggeri della vita quotidiana di Della Seta […] agli aspetti più riflessivi.