Anteprima
KARMA
di
Raffaella La Villa
Beppe Beltramo prese le chiavi della macchina con un gesto deciso. La telefonata imprevista avrebbe diradato le nebbie insinuanti di un week-end che si annunciava vuoto e senza scopo.
― Beltramo Investigazioni? Mi chiamo Barale, mi scusi se la chiamo di sabato, ma ho bisogno del suo aiuto. È urgente…
― Nessun problema, sono disponibile, mi dica…
Prima di avviare il motore, sistemò velocemente il ciuffo grigio che gli ricadeva sugli occhi infossati e chiari. Barale aveva accennato alla scomparsa della moglie, avvenuta poche ore prima, ma già sospetta. Una questione delicata, aveva aggiunto. Come se non fossero tutte questioni delicate, quelle per cui veniva ingaggiato. Sorrise tra sé mentre inseriva la marcia. Ripensò alla voce sicura del nuovo cliente: si era presentato come amministratore delegato della ditta ETK. Non aveva resistito alla tentazione di fare qualche ricerca.
Il sito ufficiale citava: “A Torino dal 1946, ETK progetta, produce, integra e garantisce assistenza di sistemi per identificazione, tracciabilità e sicurezza di prodotti, processi e percorsi. Testate elettriche, disponibili in versione statica o dinamica”. Un web master tra i meno modesti, quello della ETK. Sembrava una ditta fiorente, comunque. Beltramo sperava che il cliente sarebbe stato generoso.
L’ampio parcheggio era quasi vuoto. La figura di Barale si stagliava nella luce grigia, davanti all’ingresso. Era un uomo attraente, sulla quarantina, lo sguardo inquieto. A Beppe non sfuggì il movimento involontario delle labbra, quasi un tic. L’uomo lo guidò verso il suo studio, ampio e foderato di legno pregiato. Sulla scrivania troneggiava una foto dell’amministratore con una donna bionda, snella, dal trucco vistoso. Erano abbracciati sul ponte di quello che sembrava un costoso yacht.
― Mia moglie Clara è scomparsa nel nulla da ieri sera, come le dicevo. Questo comportamento non è proprio da lei…
― Si tratta di una questione delicata, ha detto?..
― Sì, …e per questo non mi sono rivolto alla polizia. ― Sotto l’abbronzatura, c’era un’ombra di rossore. ― Questa scomparsa potrebbe avere dei risvolti, insomma… potrebbe avere una ricaduta…
― Vuole dire che teme uno scandalo?
― Lei va subito al punto, signor Beltramo! Comunque sì, temo che possa essersi allontanata volontariamente. Eravamo un po’ in crisi e…
― Sospetta una relazione con un altro uomo.
― Vedo che ha imboccato la strada giusta e senza deviazioni! ― Barale sembrava imbarazzato. ― Sì, ho dei sospetti, purtroppo, anche se non posso escludere che le sia successo qualcosa di brutto… ― il tic alle labbra riprese, ritmico.
Beltramo chiese a Barale di parlare di ogni dettaglio ritenesse utile. Dalla conversazione emerse una strana geometria. Barale amministrava l’impresa, ma non possedeva nemmeno una quota della ETK. Unici azionisti erano sua moglie e l’ingegnere Giorgio Ferri, eredi dei soci fondatori. Clara partecipava all’aspetto decisionale, consultandosi spesso con il socio. A volte, alle riunioni si aggiungeva qualche pranzo o cena, apparentemente d’affari. Barale sospettava, infatti, che negli ultimi tempi quegli incontri non fossero più così innocenti.
Beppe chiese se avesse notato la mancanza di qualche effetto personale. Barale aveva fatto un controllo sommario. Di sicuro, mancavano la trousse del trucco e una giacca a vento bianca, la preferita di Clara. Anche il borsone della palestra non era al solito posto. Forse nell’agenda personale della moglie c’era qualche informazione utile. Beltramo la prese e la mise nella sua valigetta.
― Mi prendo un po’ di tempo e le faccio sapere se trovo una pista.
Beltramo guidò fino al Parco del Valentino. Parcheggiò. Si diresse verso una panchina. Registrò appena il mormorio delle foglie secche sotto i suoi passi. Il suo cervello aveva preso a lavorare. Era una macchina efficiente, implacabile. Se non fosse per quella minaccia, sempre in agguato e pronta a colpire. Allucinazioni cariche di dolore si imponevano tra i suoi pensieri quando meno se l’aspettava e senza che potesse impedirlo. Provenivano dall’inferno che aveva attraversato. Le crisi duravano qualche giorno, poi la sua vita tornava alla sua grigia routine. Avrebbe potuto cercare di curarsi. Vedere un terapeuta. Ma non se lo concedeva. Non ancora. Alzò istintivamente gli occhi al cielo. Era compatto e metallico.
Aprì l’agenda. Sfogliò gli appunti degli ultimi due mesi. Clara amava la sintesi. Molti impegni erano indicati con abbreviazioni indecifrabili. Lesse e rilesse più volte fino a individuare alcune regolarità. Nelle pause pranzo, sembrava ci fossero attività sportive. L’appuntamento ricorrente al sabato mattina poteva essere un parrucchiere. Quanto al venerdì, da diverse settimane c’era un appunto criptico. Una K maiuscola, sempre nel pomeriggio. Il giorno precedente c’era anche una parola abbreviata Shirod. Cercò sullo Smartphone. Ci volle un po’ di tempo, poi trovò l’informazione che cercava. Chiamò Barale.
― Sua moglie si interessa di medicina orientale?
― Ma sì, sì… lei si interessa a tutte queste cose new age, era anche diventata vegetariana… Perché, cos’ha scoperto?
― Sulla pagina di ieri, c’è un appunto che potrebbe essere Shirodara, un massaggio ayurvedico. Sa per caso quale centro frequenta?
― Non ne ho idea, ma mi posso informare… la richiamo.
Barale, alla fine, recuperò l’indirizzo. Associazione Karma, Via Nizza 296. Beltramo guardò l’orologio. Le 16.05. Meglio andarci subito.
Il palazzo era strategicamente posizionato a fianco di un parcheggio piuttosto grande. La targa sul portone, a grandi caratteri arancioni, spiccava nel pomeriggio polveroso. Alla reception, una ragazza dai capelli lunghi sorrideva tra le ciglia scure. Beppe si presentò come fratello di Clara, preoccupato perché la sorella risultava irreperibile. Chiese se fosse stata lì, la sera prima. La ragazza dopo un’iniziale diffidenza, si mostrò disponibile ad aiutarlo. Forse per via del suo sorriso addolcito dalle rughe.
― Sì, è venuta da noi, ieri, dalle 16 alle 18.
― Clara doveva sottoporsi a un massaggio Shirodara, vero?
― Sottoporsi? Oh no… ora le spiego, mi scusi solo un attimo…
La ragazza si allontanò per aprire la porta a una signora elegante.
― Signora Pautasso, si accomodi, la lezione di massaggio, sta per cominciare, ecco qui l’occorrente per struccarsi e togliere lo smalto, l’accompagno…
Scomparve dietro una porta a vetri da cui proveniva una musica rilassante. Dopo pochi minuti, ritornò, silenziosa. Sembrava scivolare sul pavimento.
― Eccomi qui. Come le stavo spiegando, Clara non è soltanto una nostra cliente, è anche un’allieva, piena di talento tra l’altro. Per quanto riguarda il massaggio Shirodara, ieri ha frequentato il corso per imparare a praticarlo…
― A che ora è uscita da qui?
― Intorno alle 18.
― Le è sembrata diversa dal solito, non so, nervosa, agitata…?
― No, anzi, sembrava particolarmente rilassata.
― Ha visto se è venuto a prenderla qualcuno?
― No, che io sappia … è uscita da sola, come al solito … non so altro.
Fuori dal portone, pochi passanti risalivano il marciapiede. Nubi nere, cariche di pioggia pesavano sulle linee di fuga dei tetti. Di fronte c’era un negozio di computer. Il parcheggio era quasi vuoto, ma una parte si sviluppava dietro il palazzo ed era parzialmente nascosta. Beppe decise di dare un’occhiata.
Appena svoltato l’angolo, vide la macchina. Una BMW X3. Come quella di Clara. Tirò fuori il Moleskine nero su cui prendeva gli appunti: la targa corrispondeva. Sentì un brivido. All’interno non c’era nessuno. Chiamò Barale. Mentre aspettava, lo guardo si soffermò sui muri gialli di un’officina. La porta d’ingresso dava proprio su quel lato del parcheggio. Forse il proprietario aveva visto qualcosa.
Oltre la porta lo accolse l’odore inconfondibile di olio per motori, benzina e pneumatici. Una donna formosa era impegnata al telefono dietro un bancone. Percorse con lo sguardo le pareti. Il calendario sexy era su quella di sinistra. La ragazza di novembre era appoggiata al tronco di un albero spoglio, i piedi calpestavano foglie color ruggine. Eppure, non suggeriva alcun tipo di caducità. Le mani sollevavano la folta chioma rossa, tra i gomiti aperti come ali, i capezzoli rosa puntavano verso un cielo torbido. Deglutì. Non era mai stato insensibile alla bellezza.
Si voltò e incrociò due occhi piccoli e chiarissimi. Interrogativi. La donna formosa era la moglie del titolare. Si occupava della contabilità. La scalatura dei capelli scuri e il grosso ciondolo a goccia indicavano il solco profondo tra i seni. Beppe lo avrebbe individuato anche senza segnali. Deglutì di nuovo.
― Cerco una persona scomparsa. La proprietaria di quell’auto bianca, in fondo al parcheggio. Forse mi può aiutare…
Beltramo porse alla donna una foto di Clara. Lei girò intorno al bancone e si affacciò oltre la soglia, nella direzione indicata.
― Sì, sì, l’ho vista. Ieri ero uscita a fumare… saranno state le sei, l’ho vista camminare verso la BMW X3 bianca.
― Ne è sicura?
― Sì, me ne ricordo bene perché di fianco alla sua, c’era una C3 azzurro pastello. Il mio colore preferito. Se mai cambiassi macchina, la vorrei così… ma lei perché la cerca? É un innamorato geloso?
Lo sguardo chiarissimo era sempre più fisso in quello di Beltramo. Ammiccante. Beppe guardò istintivamente oltre la porta sul retro, aperta sull’officina. Due grossi piedi spuntavano da sotto una station wagon.
― No, sono un investigatore privato. Grazie, ma adesso devo andare.
La donna appoggiò la mano sulla sua.
― Caspita! Un vero detective… Se le servissero altre inform…
Beppe uscì con passo svelto, proprio mentre l’auto di Barale entrava nel parcheggio.
― Ho le chiavi di riserva della macchina di Clara. Come procediamo?
Lo sguardo del cliente era lucido di preoccupazione.
― Lasci fare a me.
Beltramo aprì la sua valigetta. Ne estrasse un paio di guanti di lattice e una serie di bustine.
― Mi dia le chiavi.
Nell’abitacolo aleggiava un profumo dolce e aromatico. Nel posacenere c’era un chewing-gum avvolto in uno scontrino. Barale osservava, scuro in volto, il tic alle labbra in piena azione.
― Clara non amava le cicche. Le considerava volgari. Ma conosco una persona che ne consuma in quantità industriale!
Beppe aveva capito dove voleva arrivare. Con una pinzetta, prelevò lo scontrino appallottolato, poi ne sollevò un lembo con precauzione.
― Sua moglie fuma?
― Assolutamente no, è una salutista radicale… mi faccia vedere!
Il frammento di carta chimica era un po’ sbiadito, ma si leggevano chiaramente i prodotti acquistati: cartine Mascotte Special e tabacco Golden Virginia Absolute.
― È con Giorgio, quella troia! Lo sapevo! È con quel bastardo dei miei coglioni!
La perdita di contegno da parte del cliente era completa. Si muoveva a scatti, paonazzo in volto. Beppe provò un guizzo di simpatia. Non era il damerino ingessato che sembrava all’inizio. Cercò di mitigare la sua reazione.
― Anche se Ferri fuma lo stesso tipo di tabacco, prima di accusare… servono altri riscontri.
― Riscontri, gliene posso fornire quanti ne vuole. Prenda la macchina e mi raggiunga nel mio ufficio!
I passi dei due uomini echeggiavano nel corridoio deserto della ETK, dove l’unico segno di vita era il carrello delle pulizie, fermo di fronte a una porta socchiusa.
― Oh, no!
Barale si precipitò verso l’ufficio aperto. Si trattava di quello di Ferri. Mentre lo seguiva, vide uscire una donna filippina con un grembiule azzurro. Le spalle curve, gli occhi bassi.
― Appena in tempo. Quest’idiota stava per cancellare tutte le tracce!
Barale fece cenno a Beppe di entrare.
― Ecco qui. Il cestino è ancora pieno e… lì sul mobile c’è una tazzina. Siamo fortunati!
Beltramo si diresse prima verso il posacenere di cristallo sulla scrivania. Conteneva tre mozziconi di sigarette fatte a mano. Indossò i guanti e prese dalla valigetta pinzetta e bustine. Nel cestino trovò un pacchetto di tabacco. Golden Virginia Absolute. Sulla carta patinata, si intravedeva un’impronta digitale molto chiara. Impacchettò anche la tazzina e prelevò con l’apposito adesivo altre impronte sul mouse del computer e sui braccioli della sedia. Con un po’ di fortuna, il laboratorio avrebbe potuto confrontarle con quelle eventualmente presenti sullo scontrino nell’auto di Clara.
― Se è d’accordo, porto subito il materiale al laboratorio privato con cui lavoro. Il tecnico è davvero in gamba e velocissimo. Lo conosco personalmente. Certo non è tra i più economici…
Barale lo fulminò. Il volto era deformato dal tic.
― Ma le sembra che in una situazione come questa io possa dare importanza ai soldi?! Faccia… faccia tutto quel che deve fare e al più presto. Cazzo!
Sempre più sgarbato, ma umano. Beltramo provò compassione per lui. Tra l’altro, quel disprezzo nei confronti dei soldi avrebbe potuto rivelarsi positivo. Pensò di rivalutare la sua commissione di un buon 20%.
― I risultati sulle impronte si potranno avere quasi subito. Per il confronto del DNA sul chewing-gum e sulla tazzina, invece, ci vorranno almeno 48 ore.
Era venuto il momento di tornare a casa. Prima di accendere la luce, rievocò un’immagine familiare: Valeria indaffarata in cucina. Fingeva sempre di non averlo sentito entrare, era il loro gioco. Lui le arrivava alle spalle di soppiatto e l’abbracciava, Allora lei rideva di finta sorpresa mentre lui le solleticava il collo con le labbra. Sentì un brivido di felicità assoluta.
Il silenzio lo fece tornare alla realtà. L’interruttore illuminò l’appartamento di un uomo solo. Non poteva biasimarla per aver rinunciato a lui. Dopo l’incidente che aveva per sempre diviso in due la sua vita, era diventato irraggiungibile. Ci volle più di un bicchiere di whisky per prendere sonno, poi la notte si trasformò in un pozzo fangoso in cui si sentiva sprofondare con una sensazione di freddo.
La suoneria del telefono si sovrappose alla voce acuta del sogno. Era quella di una bambina che chiedeva aiuto. Vedeva, in alto, la sua sagoma fragile in un’aureola di luce, mentre una forza irresistibile lo tirava sempre più giù, nel fango gelido. Fece un sospiro che era una specie di singhiozzo. Si ritrovò seduto sul letto. Sveglio.
Alzò la cornetta con un gesto meccanico. Era il tecnico di laboratorio. Sullo scontrino che avvolgeva il chewing-gum c’era un’impronta abbastanza completa. Corrispondeva a quelle di Ferri.
Doveva chiamare Barale. Decise di fare prima una doccia, per cancellare il sudore acido del suo incubo ricorrente.
Il cliente rispose subito. Sembrava più calmo e controllato del giorno prima.
― Forse so, dov’è mia moglie, se così si può ancora chiamare… è disposto ad accompagnarmi? La pagherò bene.
Accettò. Era contento di avere un’occupazione per quella giornata. Passò a ritirare i risultati del test sulle impronte, poi prese un Kebab al volo e andò al Parco del Valentino, alla solita panchina. Preferiva aspettare lì l’ora dell’appuntamento. A casa avrebbe potuto assopirsi e rivedere la bambina, l’ostaggio che non era riuscito a salvare.
Alle tre era nell’ufficio di Barale. Mentre l’uomo sfogliava i referti del laboratorio, Beppe scrutava dalla finestra le nuvole grigie che soffocavano l’orizzonte. Sotto, nel parcheggio, una donna bionda ed elegante si dirigeva con passo deciso verso un’utilitaria parcheggiata in un angolo. Aveva qualcosa di francese, ma forse era solo la marca della macchina.
― C’è una ragazza giù… Qualcuno lavora negli uffici, di domenica?
― No, è solo Monica, la mia assistente. È passata a lasciare alcune pratiche.
Beltramo non fece commenti. I suoi pensieri sembravano avere contorni confusi. Pregò che non si trattasse di una delle sue crisi. Sentiva che gli sfuggiva un dettaglio, un elemento importante, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a metterlo a fuoco.
Partirono con la Porsche Macan di Barale. Il cliente spiegò che erano diretti a Valgioie, un paesino di poche anime a 1000 m. scarsi di altitudine, dopo Avigliana. Ferri aveva uno chalet nella frazione di Tortorello. Era lì che amava passare i week-end. In isolamento completo.
― Sono sicuro che Clara è lì, con lui, ma ho bisogno di un testimone, per coglierli in flagrante.
Beppe non rispose. Nell’ora scarsa di tragitto, ripercorse mentalmente l’indagine. Un lavoro facile, alla fine. Fin troppo. Eppure, la sensazione di aver trascurato qualcosa era sempre lì, in un angolo della sua mente. Dopo Valgioie, Barale si fermò nel parcheggio di un negozio. Uno di quegli spacci di montagna che vendono un po’ di tutto. Barale sapeva che Ferri si fermava sempre lì a fare provviste. Beltramo entrò a fare qualche domanda.
La donna anziana alla cassa, aveva un volto di corteccia avvizzita. Solo lo sguardo era liquido e vigile. Si ricordava una donna bionda. Era passata, venerdì prima della chiusura. Aveva comprato la bottiglia di vino più costosa. Beltramo le porse una foto di Clara.
― Mi sembra lei, sì. Rossetto rosso, bionda. Smalto rosso. Però portava una giacca bianca. A vento.
― Era sola?
― Ah non so io… ho visto solo lei, poi non so se qualcuno l’aspettava fuori… solo…
― Solo?
― No, niente, ho notato che… aveva gli occhiali scuri. Non scurissimi, ma insomma, di sera… mi è sembrato strano.
Barale ascoltò il resoconto di Beltramo in silenzio. La mascella serrata. Continuò il percorso verso Tortorello, a velocità decisamente eccessiva. Dopo una serie di curve, sgommò nel cortile di uno chalet ben restaurato, circondato da un ampio giardino.
― Venga con me ― sibilò.
Beltramo capì subito che non c’era nessuno in casa, ma Barale si attaccò con violenza al citofono. Dopo qualche minuto si arrese.
― Saranno appena andati via, i porci! Capaci di presentarsi come niente, domani. E io che mi mangio il fegato…
La voce gli si strozzò in gola. Era rosso in faccia. Beppe si avvicinò per calmarlo, ma Barale si avviò verso un sentiero a passo svelto.
― Beltramo, facciamo due passi… sono troppo incazzato per guidare.
Beppe lo seguì. Il cielo era quasi bianco, dietro la ragnatela di rami spogli. Come il respiro dei due uomini che camminavano affiancati. Come i filamenti dei pensieri di Beltramo che danzavano nell’aria pungente. In quella stagione, senza l’ostacolo delle fronde, si vedeva tutto il canalone, fino al sottobosco color terra bruciata. Barale avanzava ansimando, Beppe camminava agilmente, osservando la diagonale ripida dei tronchi. Era contento di quella camminata non prevista. Non gli costava nessuna fatica. Nato a Dronero, in gioventù aveva percorso a piedi tutte le valli occitane. Il suo passo era ancora sicuro e regolare. All’improvviso qualcosa attirò il suo sguardo. Un brandello di stoffa, appeso a un ramo spezzato. Scrutò con attenzione. Più in basso, tra i cespugli c’era una macchia bianca, più grande. Si sporse. Poi prese a scendere di corsa, aggrappandosi agli arbusti.
― Ma dove va? ― gridò Barale senza fiato. ― Torni qui che è pericoloso!
― C’è qualcosa laggiù!
― Che cosa?
― Sembra della stoffa bianca, vado a vedere.
La giacca a vento bianca avvolgeva un corpo, in pieno rigor mortis. Il corpo apparteneva a Clara Barale. Un lato del volto era pallido e puro. L’altro lato era immerso in una macchia nerastra che nascondeva l’ampia frattura del cranio. Tra le dita della mano destra, c’era un ciuffo di capelli corti e grigi. Forse quelli appartenevano a Giorgio Ferri. Beppe si avvicinò, senza toccare nulla. Scattò alcune foto con il cellulare, poi risalì.
Barale annuì, vedendole. Beppe gli appoggiò una mano sulla spalla.
― È venuto il momento di chiamare la polizia.
Gli agenti avevano scartato subito l’ipotesi dell’incidente. Clara era stata spinta. Alcuni dei capelli trovati tra le sue dita erano provvisti di bulbo. Erano dello stesso tipo di quelli di Ferri. Era solo questione di tempo prima che la polizia lo fermasse. Barale, parlava a voce bassa. Sembrava stanco, come l’inizio faticoso di quel lunedì.
― Grazie signor Beltramo, per fortuna c’era lei con me quando…
Beppe non rispose. Non riusciva a essere pienamente soddisfatto dalla soluzione del caso. Forse per il dettaglio al margine della sua mente che si ostinava a sfuggire. Del resto, da alcune ore, i suoi pensieri si facevano sempre meno nitidi. Ormai era chiaro che si trattava di una maledetta crisi. Sapeva di avere poco tempo. Poi le allucinazioni avrebbero cominciato a moltiplicarsi e la lucidità sarebbe svanita. Il tempo di ritirare il suo assegno e di tornare a casa. Di scrivere un messaggio sul suo sito per avvertire che si sarebbe assentato alcuni giorni.
Si voltò verso la finestra e guardò giù. La ragazza bionda che adesso sapeva essere Monica, l’assistente, scese dalla sua C3 azzurra e percorse la linea retta verso l’ingresso con la sicurezza di una funambola.
La verità lo colpì come una freccia. Riaprì il Moleskine sapendo già cosa avrebbe trovato. L’appunto era lì. Chiarissimo. Barale alzò su di lui due occhi segnati da profonde occhiaie. Tese verso di lui un assegno.
― Ho arrotondato un po’ il suo compenso… se l’è meritato!
L’assegno era al di là di ogni aspettativa. Beltramo lo guardò appena e non lo prese. Barale sembrava sorpreso. Beppe aveva uno sguardo gelido. Non era tanto la verità a ferirlo, quanto l’inganno, premeditato e cinico. E l’ingannato era lui. Oltre al povero Ferri.
― Qualcosa non va? Non le sembra abbastanza?
Monica entrò in quel momento. Appoggiò una cartelletta sulla scrivania. Le mani erano affusolate, le unghie laccate di smalto trasparente. Sulla cuticola del mignolo c’era una piccola traccia di smalto rosso. La ragazza alzò il viso verso il suo capo. Lui rispose con un cenno della mano come a dire “più tardi”. Monica uscì con un’andatura flessuosa. Un fascino discreto, ma sensuale.
Beltramo non provò nessuna attrazione. Un pugno di ferro gli stringeva lo stomaco. Prese l’assegno e lo stracciò. Infilò la mano destra in tasca. Sfiorò il telefonino.
― No! Credo che non sia abbastanza… e lei sa bene perché…
Barale indossò la maschera dell’indignazione.
― Parli chiaro Beltramo!
― Mi avete fatto fesso, complimenti! …tutti quei falsi indizi.
― Cosa sta insinuando?
― Siete stati voi a ucciderla!
―Voi chi?
― Lei e Monica. C’era la sua C3 azzurro pastello parcheggiata di fianco alla macchina di Clara, quando è stata vista viva per l’ultima volta…
― Ma questo cosa significa? Ce ne sono a centinaia di C3 azzurre! …e poi la signora del negozio di Valgioie l’ha vista dopo…
― Oppure, ha visto Monica, vestita e truccata vistosamente nello stile di Clara.
Barale si adombrò, poi, sembrò riflettere fra sé e sé. Alla fine, scoppiò a ridere.
― E bravo Beltramo! Ha capito tutto! Geniale lo scambio di persona, no? Quella puttana stava per lasciarmi. Mi avrebbe abbandonato come un cane, dopo tutto quello che ho fatto per la ditta… la mia ditta!
Prese un nuovo assegno e compilò una cifra assolutamente strabiliante, quanto a numero di zeri. Lo appoggiò sul tavolo.
― Come ha capito che era Monica?
― Vede, dottor Barale, Clara aveva tolto smalto e trucco per la sua seduta di Ayurveda, è un rituale di purificazione… e così era, ancora, in fondo a quella scarpata…
― Così come?
― Pura.
Barale scoppiò in una risata fragorosa, deformata dal tic.
― Ma guarda un po’, tradito da una cazzata!
Si avvicinò serio, con l’assegno in mano. Aveva ritrovato il pieno controllo di sé.
― L’avevo sottovalutata. Sappiamo tutti e due, però, che non ci sono prove contro di me. Tenga per sé le sue scoperte. Tenga anche questo assegno. È abbastanza adesso?
L’assegno era milionario. Beppe lo prese e uscì. Barale si avvicinò alla finestra. Nel parcheggio erano appena arrivate due auto della polizia. Avrebbero fermato e interrogato Ferri. Un sorriso crudele gli si allargò sul volto.
Nel corridoio, Beltramo era in preda a emozioni contrastanti. Con un milione di euro, le cose potevano cambiare. Cambiare davvero. Poi l’immagine di Barale che sghignazzava lo riportò nel luogo oscuro dei suoi incubi. I suoi pensieri erano attraversati da immagini sconnesse. Cercò di trattenerne i brandelli. Sentì la voce della bambina in ostaggio che chiedeva aiuto. Provò a mettere a fuoco il suo volto, ma si sovrapponeva a quello di Clara. Un profilo delicato immerso in una macchia scura e appiccicosa.
Non poteva ignorare quell’immagine.
Estrasse il telefonino dalla tasca.
Controllò la registrazione.
Perfetta.
Nel parcheggio, la pattuglia di polizia arrivava nella direzione opposta. Beppe alzò lo sguardo verso la finestra dell’ufficio di Barale. Era lì, in piedi, dietro i vetri. Barale vide Beltramo fermarsi a parlare col commissario, poi consegnargli un oggetto lucente, forse un telefonino. Beppe si voltò verso Barale e stracciò l’assegno in due, poi in quattro. Poi ancora. Ancora una volta. Ancora.
PIOVE SEMPRE A PORTO VENERE
di
Enrico Strappetti
Il cameriere era quasi completamente calvo, fatta eccezione per una striatura di capelli rossiccia a ferro di cavallo appena sopra la nuca, che dava l’idea di essere stata incollata. Grassoccio, si trascinava stancamente da un tavolo all’altro, armato di un notes, dove trascriveva le ordinazioni con un mozzicone di matita gialla, dopo averla sfilata dall’orecchio destro, che si perdeva tra le sue dita a forma di salciccia. Scompariva in cucina, per poi ricomparire con dei piatti di pasta fumanti, o delle pizze, che disponeva sugli avambracci come i petali di una margherita. Da una mezz’ora aveva cominciato a riporre le sedie nel retrobottega. Alla cassa, un uomo mingherlino, di mezza età, stava riepilogando i conti su un registro. Non si radeva da parecchio, portava un cardigan bordeaux, sopra una camicia azzurrina e teneva uno stuzzicadenti tra le labbra. Una coppia si teneva per mano e parlava intensamente. Erano stati così per tutta la serata, tranne che per quel poco di tempo servitogli per mangiare. L’uomo poteva essere benissimo un dottore, un avvocato, o un uomo d’affari, e la donna, una quindicina d’anni più giovane di lui, mora, elegantissima, era talmente bella e raffinata da sembrare un’attrice, o una modella delle riviste patinate. A un tratto lui le lasciò la mano, la portò alla tasca della giacca e ne estrasse una piccola scatola, la mise sul tavolo, poi con un movimento leggero delle dita la spinse verso la donna. Lei avvampò; aveva desiderato quel momento da chissà quanto tempo che aveva smesso di crederci. Afferrò la scatola con veemenza, ne sciolse il fiocco dorato, e l’aprì. Era quello che aveva immaginato: un anello nuziale, con un diamante incastonato. Gli occhi cominciarono a lacrimarle, e quando mosse le labbra per articolare qualche parola, lui glielo impedì, appoggiandole delicatamente l’indice e l’anulare sulla bocca. A quel punto lei reclinò leggermente la testa di lato, e l’uomo creò una specie di incavo con la mano, per permetterle di adagiarvisi, come un’ostrica protetta dal suo guscio. Dal tavolo accanto, un ragazzo robusto che li stava osservando, capì che quello era un momento di intimità che non ammetteva spettatori, così consumò l’ultimo trancio di pizza, bevve d’un fiato quello che era rimasto del boccale di birra e chiese il conto. Lasciò sul tavolo quanto doveva più due euro di mancia, e scambiò un rapido cenno di saluto col cameriere, che gli si dimostrò grato per non averlo fatto aspettare oltre. Una delle cose che aveva sempre detestato era far aspettare i camerieri. Un’altra era quel vizio di molti di fare troppe domande. Guadagnò l’uscita, dando un’ultima occhiata alla coppia, contento per loro, e all’orologio a parete che faceva le due e mezza.
Dopo la terza birra si sentiva libero come un aquilone. Barcollava, incapace di tenere la linea diritta del marciapiede, tenendo le mani in tasca, il cappuccio blu sulla testa a ripararlo dalla pioggia che batteva incessante, gli occhi lucidi sui tombini che sfilavano sotto i piedi, mandando un gorgoglio di acqua stagnante sulle cicche, e su pezzi di cartone che si sfacevano. Sapeva solo di dover salire per via Olivo, e giunto allo slargo, risalire ancora per via Garibaldi. Aveva attaccato a canticchiare Singin in the rain sentendosi un po’ Jean Kelly. Volse lo sguardo al mare mosso dal fortunale. Ogni onda sembrava un enorme schiaffo che si abbatteva sugli scogli. Il vento faceva ondeggiare le barche attraccate in fila sul molo come miseri gusci di noci sul punto di rovesciarsi. Due yacht, giganteschi come leoni marini, sembravano destinati a una sorte migliore. La strada era deserta, le bandiere dell’hotel dove alloggiava, “Il Paradiso”, si agitavano come se dovessero sfilarsi dalle aste e volare via da un momento all’altro, perdendosi nella notte.
Pensava solo al momento in cui avrebbe raggiunto la hall, afferrato le chiavi dal portiere alla reception, per poi stendersi sul letto, quando una serie di spari esplosero dietro di lui. Ripercorse il lungomare a ritroso, in una specie di corsa affannosa e incosciente e, arrivato davanti al ristorante, vide un uomo su una moto con un casco integrale nero e un giubbotto di pelle nero anch’esso, filare via a tutta velocità. Aprì la porta del locale, e si ritrovò davanti la donna di poco prima inginocchiata sul cadavere insanguinato del futuro marito. Si teneva la testa tra le mani, e non faceva che singhiozzare. Prese un bicchiere, lo riempì d’acqua e avvicinatosi glielo porse cercando di farla bere. Il proprietario e il cameriere sembravano due statue di sale, con due fessure appena scalpellate al posto degli occhi. In lontananza si udivano le sirene delle Polizia che stava arrivando.
Da una volante scese l’ispettore Cozzani, che si riparò sotto un ombrello grigio e cominciò a guardarsi intorno. Entrò nel ristorante, dopo aver incaricato uno dei suoi subalterni, il vice sovrintendente Tempofosco, di raccogliere le deposizioni. Si piegò sulle ginocchia, scrutando il corpo dell’uomo e l’interno del locale, in cerca di qualche indizio. Quindi iniziò a scambiare le sue prime impressioni con un altro collega, più anziano di lui, chiuso in un soprabito scuro, sopraggiunto con la seconda volante.
― Le sue generalità ― fu la prima domanda che Tempofosco pose al ragazzo.
― Claudio Ricci ― rispose.
― Cosa ci fa lei a Porto Venere?
― Mi trovo qui per lavoro ― replicò. ― Sono un cameriere, e ho trovato un posto come stagionale in un albergo qui vicino.
― Quale albergo con esattezza?
― “Il Paradiso” ― rispose.
― Oggi non lavora?
― È il mio giorno libero.
Sembrava una partita di ping-pong, dove un giocatore schiaccia, e l’altro difende.
― Cosa ha visto con esattezza? ― gli domandò. ― Anche il più piccolo dettaglio ci può essere d’aiuto.
― Ho visto due persone innamorate, una proposta di matrimonio e un bell’anello. Quindi me ne sono andato. Poi ho udito degli spari. Sono corso a vedere e non mi è piaciuto affatto quello che ho trovato. C’era un uomo in una pozza di sangue, una donna che piangeva, un amore infranto e un motociclista in fuga. Ora se non chiedo troppo vorrei andarmene a letto.
― Che ora era quando è uscito dal ristorante?
― Le due e mezza. Ho guardato l’orologio alla parete prima di uscire.
― Un’ultima domanda. Lei beve sempre così?
― Quando mi capita di sentirmi solo, agente.
― Capisco… Per ora può andare. Si tenga a disposizione, comunque.
La mattina seguente, quando Claudio aprì la persiana, si ritrovò davanti l’imponenza dell’Isola Palmaria. Un’infinita distesa di verde adagiata sulla roccia. Gli sembrava che fingesse di riposare, ma che incarnasse un’anima propria pronta a prender vita e trasformarsi in un essere minaccioso, solo lo avesse voluto. Il cielo era ancora plumbeo e la pioggia continuava a battere senza sosta.
Accese la radio, dove una stazione locale, riassumeva per sommi capi quello che era successo la notte precedente. Si faceva riferimento a un uomo armato che era entrato a notte fonda in un ristorante, “La Chiglia” per la precisione, con l’intento di sottrarre l’incasso; aveva trovato ancora dei clienti nel locale, una coppia per l’esattezza, e la donna aveva con se un anello di grosso valore. Glielo aveva strappato puntandole contro l’arma, l’uomo aveva cercato di difenderla e lui aveva aperto il fuoco, freddandolo. L’assassinato era l’Ingegnere Paolo Buzzone. Molto noto in paese per essere il proprietario di un cantiere navale. La polizia non scartava nessuna ipotesi per il momento, e neppure la radio. Ai cronisti piaceva andare alla ricerca di storie fosche, per altro in una cittadina che da quel punto di vista offriva ben pochi spunti. Qualcosa si muoveva a Sarzana, dove c’era un fenomeno di microcriminalità diffusa per opera dei nomadi e prostituzione dall’est Europa, specie nella zona di Marinella e lungo il Viale XXV aprile. Spaccio di stupefacenti a La Spezia, qualche rissa tra gruppi di giovani a Lerici, borseggio a danno dei turisti nei comuni del parco. Ma a Porto Venere si parlava esclusivamente di disturbo della quiete pubblica. Nell’ultima estate c’erano stati la miseria di soli due arresti. Quello poteva essere il caso della stagione. Spense la radio. Non aveva tempo per perdersi in congetture; Doveva prendere servizio e preparare i tavoli per le colazioni. Agli ospiti piaceva tuffarsi nei buffet mattutini, e riempirsi i piatti di uova al bacon e fette di prosciutto. Bere caffè bollente e spremute. Il più terrificante era un tedesco enorme, dalle gote rubizze che ricordava un boscaiolo. Usciva dall’ascensore, e attraversata la hall con fare perentorio, prendeva posto insieme alle due figlie, alte snelle e brune, e a sua moglie, mastodontica come lui, che già gli aveva preparato il piatto. A pranzo notò un uomo asciutto, capelli neri pettinati all’indietro, seduto da solo a un tavolo affacciato sul mare. Aveva ordinato mozzarella e prosciutto per antipasto, seguiti da spaghetti al pesto. Era l’unico italiano tra i commensali.
Tra un boccone e l’altro, gli era parso che l’osservasse. Quando gli portò il caffè si presentò: ― Sono il commissario Rissetto. Volevo farle alcune domande su quanto accaduto stanotte.
Claudio barcollò. Nel poggiare la tazzina sul tavolo venne tradito da un leggero tremolio della mano. Il commissario se ne accorse.
― Non riusciamo a capire se lei, effettivamente si trovava alla “Chiglia” per caso, oppure se ha qualcosa a che vedere con questa faccenda ― esordì Rissetto. ― Per cominciare, il rapinatore, stando alle testimonianze del proprietario e del cameriere, non si è diretto verso la cassa, ma direttamente verso la donna. Quindi sapeva dell’anello. Per quello che ci riguarda, lei avrebbe potuto avvisarlo e mandarlo a colpo sicuro ― continuò.
― Devo chiamare un avvocato? ― si riprese il ragazzo.
― Non è stata formalizzata nessuna accusa. Stiamo solo parlando.
― Sentirsi sospettati di concorso in rapina e in omicidio non mi pare proprio come farsi una chiacchierata al bar.
― Non proprio in effetti. Mi sembra presto per parlare di avvocati comunque. C’è dell’altro; abbiamo spulciato un po’ la sua situazione. Non direi che se la passa troppo bene. Un po’ di soldi le sarebbero serviti.
― E a chi non servirebbero! ― intervenne Ricci. ― Una cosa non mi spiego… Ad “avvisare” il rapinatore, come dice lei, sempre ammesso che qualcuno lo abbia avvisato, potrebbero essere stati anche il cameriere o il proprietario. In fondo erano lì anche loro.
― È un’ipotesi che stiamo considerando, ma li conosciamo da vent’anni e non ci hanno mai dato grattacapi.
― Quindi non resto che io. Molto rassicurante. Se possibile, vorrei tornare a lavorare, adesso.
― Vada pure, e grazie, per ora.
Dopo aver lasciato il ristorante, il commissario fece rientro in Questura. Il suo ufficio era piuttosto asettico. Una scrivania di mogano, un computer, un telefono nero, un’agenda in pelle marrone, carte, penne e matite sparse alla rinfusa, una scacchiera, qualche cioccolatino. Una comoda sedia ad altezza e inclinazione regolabile per lui, due all’altro capo del tavolo. Un armadio con una serie sterminata di faldoni impilati e catalogati. Un minibar con qualche bottiglietta di chinotto, del ghiaccio e una retina di limoni. La foto del Presidente della Repubblica alle sue spalle era accompagnata solamente da un calendario della Polizia di Stato, fissato con un chiodo alla parete bianca, aperto sul mese di maggio. Niente che potesse avere un benché minimo rimando ai propri affetti. Dopo avere riordinato le idee sollevò il telefono e chiamò l’ispettore Cozzani su una linea interna. L’ispettore entrò dopo un minuto e prese posto davanti a lui.
― Ho finito di parlare adesso con quel ragazzo ― fece Rissetto. ― Per me non c’entra niente. ― Vai a fare un sopralluogo alla Villa dell’ingegner Buzzone. Portati Tempofosco, Pittaluga e Mozzachiodi. Perquisite bene tutto da cima a fondo, e cercate di scoprire qualcosa di più sulla faccenda, compresi tabulati, e movimenti bancari di tutti i coinvolti. Poi fai lo stesso con il cantiere. Ti fai dare i libri contabili, parli con l’amministrazione e anche con gli operai.
― Bene Commissario ― gli rispose l’ispettore, e lasciò la stanza.
La volante, guidata da Mozzachiodi, raggiunse un vialetto con aiuole e vasi di gerani su entrambi i lati. Un maggiordomo in livrea rossa e bottoni dorati gli aprì il cancello con un telecomando; la villa era a due piani, immersa nel verde. Da una scalinata si raggiungeva un’ampia piscina a forma ovoidale, una fila di lettini e un gazebo in legno con delle poltrone in vimini dove sorseggiare margarita. Scesero tutti e quattro e Pittaluga, stirandosi, si chiese quanti secoli gli sarebbero serviti per potersene comprare una simile. La signorina Ferrando li fece entrare senza bisogno di mostrare alcun mandato. La Ferrando aveva due enormi borse sotto agli occhi arrossati, indossava un paio di pantaloni di velluto a coste blu, e una camicetta bianca. Fece accomodare l’ispettore Cozzani su un divano a chaise longue, posto al centro di un salone grande come un campo da tennis, e gli si sedette accanto. Tempofosco, insieme agli altri due agenti cominciarono a guardarsi in giro.
― Come si sente? ― esordì l’ispettore.
― A pezzi ― rispose la signorina, mentre gli porse una busta.
― Me l’ha data tre giorni fa.
L’ispettore l’aprì; era una lettera firmata da Buzzone che, recitava così:
“Scusami amore mio, ma il fallimento del cantiere navale, il licenziamento degli operai a cui sono stato costretto, gente che conoscevo da una vita e alla quale ero legatissimo; la mia fine di uomo e imprenditore mi ha fatto sprofondare in un abisso senza ritorno. Non ho più voglia di vivere. Anche le cure che ho iniziato non hanno portato a niente. Ti ho intestato un’assicurazione sulla vita che se mi suicidassi non potresti incassare. Ma ho pensato a tutto io, stai tranquilla.
Ti chiedo di perdonarmi ancora una volta mio fiore. Non ce la faccio più. Addio.
Tuo Paolo”
― Ma questo non l’ha messa in allarme? ― gli chiese Cozzani.
― Sì, all’inizio. Poi l’ho scambiato per uno dei suoi soliti sbalzi di umore. Ne aveva di continuo di questi tempi. Oramai mi ci ero abituata. Cambiava repentinamente, fino a diventare aggressivo. Chiedete in giro se volete delle conferme.
― Aggressivo fino a che punto?
― Fino a picchiarmi. Ma successe solo due volte.
― Allora perché continuava a restare con lui?
― Perché ne ero innamorata. E dopo l’ultima volta aveva pianto come un bambino, tra le mie braccia, e aveva iniziato una terapia seria, due volte la settimana. E prendeva dei farmaci. Così avevo deciso di dargli un’altra possibilità.
― Capisco.
― Del motociclista avete saputo qualcosa?
― Lo stiamo cercando ― gli rispose l’ispettore, congedandosi.
L’ispettore ripensava a tutta quella storia, mentre guardava fuori dal finestrino.
Ad un certo punto dovette spronare Mozzachiodi, che si stava appisolando al volante.
― Di corsa al cantiere navale, e poi in commissariato! ― echeggiò.
Mozzachiodi, capita l’aria che tirava, prese la sirena dal cruscotto, l’accese, e la piazzo sul tetto. Quindi schiacciò il pedale dell’acceleratore. La visita al cantiere fu rapida. Dopo aver spulciato i libri mastri, sentito l’Amministratore delegato, e qualche operaio, si decise a rientrare.
― Racconta ― disse Rissetto, appena Cozzani mise piede nel suo ufficio.
― Durante la perquisizione della Villa, abbiamo rinvenuto una copia del testamento dell’Ingegnere Buzzone nella cassaforte. Lascia la villa e la fabbrica ai suoi due figli maschi, nati da un precedente matrimonio. Ancora non sono maggiorenni, studiano in un collegio svizzero, e il notaio aspetterà il compimento del loro diciottesimo anno di età, per renderne effettiva l’esecuzione. Intanto amministrerà un assegno mensile di duemila euro per entrambi, e pagherà loro la retta. In favore della signorina ha stipulato un’assicurazione sulla vita, come unica beneficiaria in caso di morte. Fino a qui sembra tutto nella norma, se non fosse per la lettera. Le compagnie di assicurazioni in effetti, non pagano la somma assicurata in caso di suicidio, questo per i primi due anni. L’assicurazione stipulata dal dottore era in vigore da un anno. La lettera farebbe ipotizzare che l’ingegnere abbia assoldato un killer per farsi ammazzare, e lasciare che la sua futura moglie benefici dei due milioni di premio.
― E tu ci credi?
― Mi suona strano. Sarebbe una prova d’amore incredibile, all’interno di una malattia dalla quale si creda di non poter venir fuori.
― Inoltre, abbiamo parlato col maggiordomo, con la cuoca e con l’autista. L’ingegnere, con la signorina era di una gelosia ossessiva. Non la perdeva d’occhio un secondo. Una volta lei gli chiese di uscire con le amiche e ne nacque un litigio tremendo, protrattosi fino a notte fonda. Non faceva che farle pesare le sue origini, il fatto che non avesse un soldo, che lui l’aveva tirata via da quel negozietto di abbigliamento dove le davano ottocento euro al mese. Che le avesse fatto conoscere il mondo. Le cene, le feste, i viaggi. “Non sei niente senza di me” gli disse una sera.
Il commissario non si era perso neanche una parola, nonostante rivivesse sulla scacchiera, le mosse della sesta partita di Robert Fischer contro Boris Spasskij, finale del campionato del mondo del 1972. La classe di “Bobbie” era rimasta intatta, nonostante fossero passati quarantadue anni dalla “Partita del secolo” di Reykyavik.
― Del cantiere che mi dici?
― Gli affari non andavano a gonfie vele, ma non c’era un imminente pericolo di fallimento. Per quanto riguarda gli operai licenziati, si tratta di quelli che gli mettevano i bastoni tra le ruote. I più rivoltosi. Quelli che reclamavano diritti, che si rivolgevano ai sindacati interni. Ci sono tutt’ora delle vertenze in corso. “Ma lavorate e basta” lo hanno sentito sbraitare dal suo ufficio più di una volta.
― Avete fatto un ottimo lavoro! ― disse il commissario, mentre con un movimento dell’indice, consegnava il re nero di Spasskij al suo destino.
Il commissario Rissetto si era alzato di buonora. Dopo una rapida doccia e una tazza di caffè, si era rasato e, nel guardarsi allo specchio, si era trovato un po’ invecchiato, anche se ancora piacente. Come tutte le mattine, aveva raggiunto a piedi la Questura, che distava una mezz’oretta da casa sua. Quindi con l’auto di servizio, si era immesso su viale Italia e attraversato il parco XXV aprile. Percorrendo il viale alberato, all’altezza della Cassa Di Risparmio Di Genova E Imperia, aveva rivolto un pensiero a Laura, una giovane e formosa cassiera, capace di imbarazzarlo ogni volta che si trovava in filiale per qualche operazione. Indossava camicette sbottonate, che lasciavano intravedere un seno generoso, sul quale era impossibile non far cadere lo sguardo. Prese via del Canaletto, fino alla chiesa di San Giovanni Battista, e poi svoltò per via Sarzana in direzione del centro di salute mentale, dove Paolo Buzzone era in cura. Parcheggiò l’auto, e si avviò verso l’ingresso. Salì tre gradini prima di aprire una fredda porta dal vetro smerigliato. Chiese a un usciere dove fosse la Dottoressa Parodi; Aveva un appuntamento per le nove in punto. L’uomo gli disse di percorrere il lungo corridoio e di voltare a destra. La seconda porta era quella della dottoressa. Stava visitando un paziente, ma intanto l’avrebbe avvisata del suo arrivo, dal centralino. Davanti alla porta trovò una fila di cinque sedie di plastica beige e un tavolinetto con delle riviste. Si mise seduto sfogliandone una. Insieme a lui aspettavano un ragazzo, una ragazza e una donna anziana. Il ragazzo non riusciva a star fermo, dondolava sulla sedia come se la madre ancora lo cullasse. La donna anziana, curva, recitava una nenia, mentre percorreva il corridoio avanti e indietro, a passi piccoli e svelti. Le sue movenze, avrebbero ricordato quelle di una geisha, non fosse stato per l’età. La ragazza fischiettava. A un tratto si rivolse al commissario: ― Da dove viene lei? È la prima volta che la vedo.
― Vengo da Portovenere. Sono…
― Piove sempre a Porto Venere ― lo interruppe la ragazza, fissandolo con aria sospetta.
Rissetto si era già pentito di non aver voluto aspettare fuori. La ragazza, a intervalli cadenzati di trenta secondi aveva preso a ripetere: ― Piove sempre a Porto Venere. ― Sembrava si fosse incantata come uno di quei vecchi giradischi. Finalmente la dottoressa uscì, accompagnando un’altra paziente e salutandola cordialmente, poi si avvicinò al commissario.
― Lei deve essere il commissario Rissetto.
― È di Porto Venere ― si intromise la ragazza. ― Piove sempre laggiù.
― Certo Luisa. Piove sempre laggiù ― la rassicurò la dottoressa in tono conciliante, e fece cenno a Rissetto di entrare.
― Immagino lei sia qui per sapere quale sia la mia idea sul povero ingegnere ― esordì la dottoressa.
― Esattamente ― rispose Rissetto.
― Il dottore soffriva di disturbi legati all’umore.
― Di che tipo di disturbi per l’esattezza? Se posso chiederlo.
― Sono vincolata dal segreto professionale. Quello che posso dirle, senza entrare nel dettaglio, è che si trattava di problemi legati all’ira.
― Abbiamo rinvenuto una lettera dove si fa riferimento a un suo possibile suicidio.
― Posso leggerla? ― Il commissario gliela porse. La dottoressa la esaminò con attenzione.
― Buzzone non era un depresso in senso stretto ― commentò, scettica.
― Quindi mi sta dicendo che non si sarebbe mai ammazzato.
― Non posso dirlo con certezza. Nessuno è in grado di dire che cosa passi nella testa di un uomo. Potrebbe anche averlo fatto. È il testo della lettera che mi sembra poco credibile.
― Come se non l’avesse scritta lui… intende?
― È quello che temo.
― La ringrazio infinitamente. Non sa quanto mi sia stata utile. ― Nel salutarla indugiò sulla mano sinistra, lunga e affusolata, sperando di non trovarci una fede, cosa che puntualmente accadde.
Il commissario e il ragazzo avevano lo sguardo rivolto all’Isola Palmaria.
― Così questa storia è finita? ― chiese il ragazzo al commissario Rissetto.
― Già. Li abbiamo fermati al confine con la Francia. Cercavano di scappare. Stessa moto, due passaporti falsi. Lei portava una parrucca bionda nel tentativo di camuffarsi. Lui si chiama Giorgio Traversa, è il proprietario del negozio di abbigliamento dove prima lavorava la Ferrando. Là si erano conosciuti e divenuti amanti. Poi la sceneggiata della storia con l’ingegnere, verso il quale lui stesso l’aveva spinta, certo di potergli spillare dei soldi, una volta o l’altra. Fu lei a metterlo in trappola l’altra sera, con una telefonata che abbiamo rintracciato, fatta dalla toilette della “Chiglia”. Poi il tentativo di depistarci con la falsa lettera. Stupidi, oltre che assassini. La specie peggiore.
― Ci dispiace di avergli creato dei problemi ― si scusò il commissario.
― Poteva capitare ― disse il ragazzo. Cercando di non farglielo pesare.
― Mi tolga una curiosità. Cosa sta guardando? ― gli chiese Rissetto, cambiando discorso.
― Quella sorta di casetta, appena staccata dall’isola.
― Non è una casetta. È la Torre Scola, fu voluta dalla Repubblica di Genova a protezione delle coste. Le sue mura, spesse quattro metri, ospitavano fino a otto soldati. Disponeva di dieci cannoni. Durante la dominazione napoleonica fu al centro degli scontri navali del 23 gennaio del 1800 tra le flotte inglesi e francesi, per allontanare quest’ultimi dal golfo spezzino, tanto che per i danni subiti a causa delle cannonate fu deciso l’abbandono già nella prima metà del XIX secolo. La dovevano demolire, poi decisero di farne un faro.
― Lei è uno storico, vedo. Quando non si occupa di delitti.
― Amo la mia terra. Tutto qua.
― È davvero bellissimo questo golfo. Uscisse un po’ di sole almeno. Sono qui da una settimana e non ha fatto altro che piovere.
A Rissetto tornò alla mente quello che ripeteva la ragazza in cura dalla dottoressa Parodi, e abbozzò un sorriso. Accese una sigaretta continuando a guardare il cielo gonfio d’acqua che, sembrava schiacciare il mare. Alla fine, la ragazza non aveva tutti i torti, si disse. Piove sempre a Porto Venere.
TRE VOLTE
di
Romolo Giovanni Capuano
Nei primi dieci minuti di conoscenza dell’uomo, Giovanni Senzani mentì tre volte. La prima quando gli strinse la mano e disse: ― Piacere. ― Non aveva affatto piacere nell’incontrarlo. Provava, anzi, disgusto, repulsione. La seconda fu quando l’uomo gli chiese: ― Come va? ― e Giovanni rispose: ― Bene, grazie. ― Non andava affatto bene. Lui si sentiva a disagio. Non era abituato a quella situazione e sperava di non doverla vivere mai più. La terza fu quando l’uomo gli chiese a cosa dovesse il piacere di quella visita e Giovanni rispose che era interessato a quello che faceva. Avrebbe voluto dirgli che era lì per provare che era uno spregevole assassino, ma se glielo avesse detto direttamente non sarebbe mai stato capace di provarlo. Nei primi dieci minuti di conoscenza dell’uomo, Giovanni Senzani mentì tre volte. Ma riuscì a scoprire la verità.
Come ogni mattina da dieci anni, Giovanni Senzani timbrò il cartellino ed entrò nell’edificio, appena ridecorato. Si sedette alla sua postazione e accese il computer. Nell’attesa che l’apparecchio diventasse funzionale, scambiò quattro chiacchiere con i colleghi. I dipendenti pubblici sono piuttosto prevedibili nelle loro conversazioni. Per una straordinaria metamorfosi, una volta diventati impiegati, gli individui sono vittime di un’incredibile riduzione della sfera degli interessi che li porta a discorrere sempre e solo degli stessi argomenti. Nell’ordine: 1) lavoro; 2) entità e prospettive dello stipendio; 3) privilegi/ingiustizie subite in ambiente lavorativo, più le seconde; 4) pensione imminente, anche se mancano 30 anni alla pensione. Quel giorno si parlava di pensioni.
― Ascoltami, noi, la pensione, non la vedremo mai. Lavoreremo fino a 80 anni e moriremo su questa scrivania ― disse il dirimpettaio di Giovanni, Antonio Lo Monaco. Le parole erano le stesse del giorno prima e del giorno prima ancora. ― Qui ci schiattiamo, se non succede qualcosa. Una rivoluzione, per esempio.
― Sì, e la rivoluzione chi la fa? Tu? ― rispose Senzani.
― E mentre noi schiattiamo qui, la gente muore ― fece notare Salvatore Del Prete. ― Avete sentito della ragazza rumena ammazzata nel parco della Reggia? ― disse, agitando il quotidiano locale, nel tentativo di cambiare discorso. ― È Adriana! Vi ricordate Adriana? Dio santo, dove andremo a finire?
Proprio in quel momento entrò nella stanza Paolantoni, il dirigente: ― Sempre a parlare di donne, voi. Salvatore, vieni con me. Quella determina l’hai preparata? L’assessore ci aspetta. Diamoci da fare.
Uscì dalla stanza e le sue parole ebbero il potere di far tornare tutto alla normalità.
― E comunque io fino a 80 anni, qui, non ci schiatto ― ribadì Antonio Lo Monaco. Ma Giovanni non lo seguiva più. La sua mente era presa da altro.
Giovanni Senzani aveva sentito parlare del fatto. Adriana Rebreanu, 23 anni, barista in un noto locale del centro di Caserta, era stata ritrovata senza vita, alle 8 del mattino del giorno prima, nei pressi del secolare albero di Magnolia che ombreggiava la Castelluccia, l’edificio dove un tempo il re borbone si allenava simulando battaglie terrestri. A ritrovarla, un giovane che faceva jogging. In ufficio tutti conoscevano Adriana. Era lei che portava caffè e cornetti la mattina, traspirando un’allegria che contrastava notevolmente con il grigiore di quelle stanze. Giovanni ricordava il suo sorriso perenne, i suoi modi sbarazzini. Una volta, aveva osato farle un complimento e quella, nel suo italiano incerto, gli aveva obiettato che avrebbe potuto essere suo padre, causandogli una repentina fitta depressiva. Però, si era avvicinato a lui e gli aveva mormorato “grazie” così dolcemente che Giovanni era arrossito come un peperone. Ora Adriana non c’era più e Giovanni era triste. I giornali locali mostravano la sua foto. Era bellissima. “La morte,” meditò Giovanni, “non dovrebbe mai avere la meglio sulla bellezza.” Timbrando l’uscita, Giovanni si disse che non sarebbe andato a casa quel giorno. Sua moglie avrebbe aspettato.
Non è strano che Giovanni Senzani avesse un carabiniere per cugino. A Caserta, tutti hanno almeno un fratello, un cugino, un parente o un amico tra i carabinieri, la polizia, la guardia di finanza, l’esercito o l’aeronautica.
Daniele Vitale, il cugino carabiniere di Giovanni, aveva un difetto: beveva caffè in quantità industriale. Aveva anche un pregio: gli piaceva parlare. Una volta raggiunto il bar dove si erano dati appuntamento con Giovanni, cominciò a raccontare tutto.
― Abbiamo più di un sospetto, Giovanni. Anzi, per me è una certezza. La mafia rumena. Adriana ha vissuto per un certo periodo in Lombardia come prostituta e probabilmente ha fatto uno sgarro a qualche esponente della malavita del suo paese. La mafia rumena non perdona. È brutale e violenta. Lo sai che in certe zone del Nord e del Centro ha il controllo quasi totale della prostituzione straniera?
― Ma non faceva più la prostituta. Era una barista.
― Sei sicuro? Solo perché ti portava caffè e cornetti la mattina, non significa che avesse smesso di esercitare la professione. Magari di notte. Giovanni, fidati, il caso è chiuso. Quelli, le donne le riducono quasi in schiavitù. E le torturano. Secondo me, la Rebreanu aveva provato a scappare, è stata raggiunta e uccisa. Stiamo interrogando tutti i possibili testimoni. Vedrai che la nostra pista sarà confermata.
― Sì, ma come ha fatto a finire alla Castelluccia alle 8 del mattino? E perché è stata uccisa proprio lì? Non ha senso.
Daniele tirò su i pantaloni: ― Dettagli di poco significato. Quelli, quando vogliono uccidere qualcuno, lo fanno dappertutto. Il luogo del delitto è l’ultimo dei problemi. Però, ti voglio far vedere qualcosa. Si guardò intorno e, assicuratosi che nessuno li stesse osservando, mostrò delle foto a Giovanni.
― Guarda! Sono le foto che abbiamo scattato alla Castelluccia. Queste non le vedi in nessun giornale.
Giovanni le prese in mano. Erano quattro. Mostravano una ragazza seduta con le spalle sorrette dalla grande magnolia. Non sembrava nemmeno morta. Adriana era quasi più bella che da viva. I capelli erano ordinatamente raccolti sul capo. Il vestito non presentava nemmeno una piega. Le scarpe calzavano perfettamente i piedi. Le mani erano reclinate sulle cosce. Unico elemento dissonante la ferita da coltello che le aveva reciso la gola e che ne aveva causato la morte. Le tracce di sangue sul vestito erano straordinariamente esigue.
― Giovanni, quelle sono bestie. Ascoltami.
― Sì, è vero. Chi ha ucciso Adriana è una bestia ― rispose Giovanni. Salutò il cugino frettolosamente e uscì dal bar.
Sua moglie avrebbe aspettato ancora un po’.
Il bar dove lavorava Adriana si trovava nella centralissima piazza Vanvitelli. A Caserta, tutti sanno che Vanvitelli è l’architetto olandese che ha costruito la Reggia. Basta però spostarsi di pochi chilometri e nessuno sa più chi sia. Nemmeno gli olandesi lo sanno. Ogni città possiede delle conoscenze che sembrano ovvie a coloro che vi abitano. Conoscenze relative a personaggi, fatti storici, nomi di strade. Sembrano ovvie, così come a Daniele e ai carabinieri sembrava ovvio che Adriana fosse stata uccisa dalla criminalità rumena. Ma a volte l’ovvietà nasconde qualcosa. Ed è ingannevole.
Il bar-pasticceria Serino era sorto da poco. In un momento storico in cui gli esercizi commerciali chiudevano in tutta la città, Serino aveva messo su un locale imponente, quasi di lusso. I ben informati dicevano che i fondi per la sua costruzione provenivano da soldi sporchi che la camorra intendeva riciclare. In ogni modo, qui si assaggiavano le paste e i cornetti migliori della città.
Giovanni entrò nel locale che erano quasi le 6 del pomeriggio.
― Ciao Enrico, mi fai un caffè? ― gridò al proprietario, cercando di sovrastare la calca vociante che a quell’ora si ammassava senza alcun apparente motivo nel locale. Per un attimo stette a sentire i loro discorsi. Nessuno parlava di Adriana. Gli argomenti di conversazione erano i soliti. La Casertana, le imminenti elezioni amministrative, le inefficienze della classe politica e la perenne carenza di denaro.
― Che disgrazia, Enrico ― disse Giovanni, imbeccando il proprietario.
― Sì, Giovanni ― fece Serino. ― La morte di Adriana mi ha sconvolto. Ho anche pensato di chiudere il negozio per lutto. Per me era la migliore qui dentro. Le volevo bene. Tanto.
― Lo sappiamo che le volevi tanto bene, ad Adriana ― si intromise la moglie di Serino, Antonella Giuliano, sempre pesantemente truccata. ― Soprattutto a certe parti del corpo. Non è vero?
― Antonella, non fare così davanti a Giovanni, se no si fa chissà quali strane idee ― la interruppe Serino.
― E fa bene a farsele queste idee. Perché io so tutto, Enrico. E sai una cosa? Sono felice che è morta, quella zoccola. Così certe distrazioni non ti vengono più!
― Sei solo invidiosa della sua bellezza, ― rispose Enrico duro, ― ma non ti preoccupare perché per me la più bella sei sempre tu ― disse con fare ironico, tentando un pizzico alla coscia destra. ― Ora va via altrimenti spaventi i clienti. ― E con un gesto imperioso le intimò di tornare in laboratorio.
― Da quando Adriana è venuta in questo locale è stato un inferno, Giovanni ― disse Enrico. ― Tutti gli uomini le facevano la corte, tutte le donne la invidiavano. Compresa mia moglie. Pensa che non vuole nemmeno che vada al suo funerale. Ma non mi sono mai pentito di averla assunta. Era una ragazza speciale.
― I carabinieri pensano che Adriana sia stata uccisa dalla mafia rumena, che era una prostituta che aveva tentato di conquistare la libertà. Tu che ne sai?
― Una prostituta? Adriana? Mi viene da ridere.
― E perché?
― Perché era tutt’altro che una ragazza facile, a differenza di quello che pensa mia moglie. E poi, anche se avesse voluto, non avrebbe trovato il tempo.
― Cioè?
― Adriana lavorava qui dalle 8 alle 15. Poi andava in uno studio medico e lavorava come segretaria. Fino alle 19 mi sembra. E poi andava in una famiglia come badante e ci restava fino alle 8 quando veniva da me. Dimmi tu, dove lo trovava il tempo per fare la prostituta. Non aveva il tempo nemmeno per guardarsi in faccia.
― Eppure i carabinieri sono convinti che…
― E sbagliano. Ieri sono venuti da me. Si sono presi il caffè, due domande e se ne sono andati. Non mi hanno neppure ascoltato. Poi è intervenuta mia moglie. Si è messa a chiamarla “zoccola” e quelli hanno capito tutto. Ma ascoltami, Giovanni. Quelli non hanno capito niente. Adriana era una ragazza a posto.
― Grazie, Enrico. A buon rendere.
― Ma una sfogliatella non la vuoi?
― Oggi no. Un altro giorno Enrico.
Alle 19 in punto, Giovanni Senzani entrò in casa. Degnò di un ciao biascicato la moglie e si rifugiò nella sua stanza. La stanza era tappezzata di libri da parete a parete. Giovanni trasse un libro e cominciò a leggere.
Nell’ambito dello sfruttamento della prostituzione, la criminalità rumena adotta metodi particolarmente violenti nei confronti di donne anche minorenni, ricorrendo a forme di tortura e le ragazze sono spesso ridotte in schiavitù e così dissuase dal ricorrere all’aiuto delle forze dell’ordine.
― Ricorrendo a forme di tortura, ridotte in schiavitù ― ripeté meccanicamente Giovanni.
― Schiavitù? ― fece sua moglie. ― Perché, oggi esistono ancora gli schiavi?
― Esistono, ― rispose Giovanni serio, ― ma la gente non lo sa. O fa finta di non saperlo.
― Vieni che è pronto in tavola, così mi racconti tutto.
― Che c’è oggi per cena? Tagliatelle? Funghi porcini?
― Brodo di pollo, Giovanni. E non fare finta di non saperlo.
Alle 11 del mattino successivo, Giovanni ebbe una telefonata da Daniele Vitale, il cugino carabiniere.
― Tataaa! ― fece quello prima che Giovanni ebbe modo di dire “ciao”. «Avevo ragione io. Stamattina abbiamo arrestato Dragomir Lungu, un pezzo da novanta della criminalità rumena. Ha già confessato di conoscere la Rebreanu. Naturalmente, dice di non averla uccisa, che è innocente, che ha un alibi di ferro. Dicono tutti così. Stiamo controllando, ma l’assassino è lui. Mi gioco quello che vuoi.
Giovanni rimase senza parole per la sorpresa. Ma non poteva essere vero. Qualcosa non quadrava. I carabinieri stavano facendo un buco nell’acqua. Il volto di Adriana gli apparve improvvisamente davanti agli occhi scomponendosi in mille forme.
― Giovanni, sei ancora vivo? Non te la prendere dai.
― Non me la sto prendendo. È solo che… sembra tutto così assurdo.
― Va bene, dai. Per consolarti, ti farò vedere il cappello.
― Il cappello? Quale cappello?
― Quello che indossava la Rebreanu quando è stata ritrovata nel parco. Roba dell’Ottocento. Nelle foto di ieri era stato rimosso per facilitare l’identificazione della vittima.
― Ma che ci faceva Adriana con un cappello dell’Ottocento?
― E che ne so? Queste straniere, lo sai come sono.
― No, non lo so. Come sono?
― E dai, Giovanni, non fare sempre il paladino degli oppressi.
― Quando mi fai vedere il cappello?
― Vieni da me nel pomeriggio. Non dovrei mostrartelo. È un elemento della scena del delitto, ma un attimo che vuoi che sia?
Alle 15:30 in punto, Giovanni timbrò l’uscita facendosi largo per primo tra le frotte di impiegati che, lo sguardo rivolto all’orologio, pregavano, come ogni giorno, che la giornata lavorativa volgesse al termine.
Lo studio dentistico del dottor Piperno era a venti minuti di macchina. Il dottor Piperno, insieme ai suoi soci, esercitava odontoiatria da trenta anni e il suo era probabilmente lo studio più in voga del momento. Fu accogliente e molto disponibile.
«Dottor Senzani, buon giorno. Mi ha chiesto di vederla per la morte di Adriana, ma mi tolga una curiosità. Lei ha detto di essere un funzionario, ma non di polizia. Ho già parlato con un carabiniere due giorni fa e ho detto tutto quello che sapevo della povera Adriana. A che devo la sua visita?
Diciamo che conoscevo Adriana e sono rimasto colpito da quello che le è accaduto».
― Le forze dell’ordine si sono già fatte un’idea, mi sembra. Ho sentito per radio che hanno arrestato il colpevole. Un connazionale, se non erro.
― Sì, ma c’è qualcosa che non mi convince.
― Vuol dire che sta indagando da solo sull’omicidio? Come in un film giallo?
― Veramente i film gialli li vedo poco. Vorrei solo farle qualche domanda.
― Va bene, prosegua.
― Enrico Serino mi ha detto che Adriana veniva qui ogni giorno dalle 15 alle 19. Me lo conferma?
― Certo. L’abbiamo assunta un anno fa. Si è dimostrata sempre impeccabile. Era molto intelligente. Direi che era quasi sprecata per questo lavoro.
― E dopo le 19?
― Dopo le 19 mi sembra lavorasse come badante per gli Aliberti. Una vitaccia, sempre in movimento. Ma ci sapeva fare.
― Dottore, mi sa dire se qualche volta è venuta nel suo studio accompagnata da un uomo? Se aveva un fidanzato?
― Adesso che me lo chiede, sì. Una volta è venuta in compagnia di un tipo. Ma è passato tanto tempo.
― Mi sa dire se assomigliava al sospettato rumeno arrestato dalla polizia?
Giovanni estrasse una foto tratta dalla edizione online di un quotidiano locale.
Piperno osservò attentamente l’immagine. ― Per niente. I capelli erano completamente diversi e lo sguardo era dolce. E poi ci sono altri due particolari.
― Quali? ― disse Giovanni.
― Il giovane aveva una piccola cicatrice all’altezza dello zigomo destro. La ricordo bene perché era così strana che inizialmente pensai fosse un tatuaggio. E poi parlava con un perfetto accento casertano. Insomma, non era rumeno.
Al Comando dei carabinieri erano in festa. Si vedevano facce soddisfatte come non mai. Il più contento sembrava proprio Daniele Vitale.
― Hai visto che festa? ― disse a Giovanni non appena questi oltrepassò la soglia dell’edificio. ― Un omicidio risolto in 24 ore non è cosa da poco. Ma vieni, ti faccio vedere il cappello.
Entrarono in una stanza piccola dove erano raccolti vari reperti. Da una scatola piuttosto voluminosa Daniele estrasse un cappello da donna di stile ottocentesco con molte decorazioni.
― Ma perché Adriana indossava un cappello del genere? Non ha alcun senso. A meno che…
― A meno che…? ― chiese Daniele incuriosito.
― A meno che qualcuno non glielo abbia messo addosso.
― E perché, scusa?
― Non lo so. Ma secondo me questo è un dettaglio importante.
― Un dettaglio importante? Giovanni, ma non hai ancora capito che il caso è risolto? Non sprecare il tuo tempo. Va a casa e non pensarci più.
Uscendo, Giovanni si sentì triste. Lasciò il Comando in fretta, ma non andò a casa. Aveva bisogno di verificare una cosa.
Il giorno dopo Giovanni timbrò l’uscita alle 15:35, si mise in macchina e raggiunse corso Giannone. Riuscì con fatica a trovare un parcheggio, uscì dall’auto e bussò al numero 39. Sul citofono era scritto “Aliberti”.
― Chi è? ― rispose una voce maschile.
― Mi chiamo Giovanni Senzani, signor Aliberti. Sono … ero un amico di Adriana. Posso farle qualche domanda?
Dall’altra parte non vi fu alcuna risposta. Semplicemente il click del cancello che si apriva. Giovanni percorse a piedi le scale che lo portarono al secondo piano. Trovò ad accoglierlo una porta semiaperta e un uomo di circa 70 anni. Entrando, Giovanni ebbe l’impressione di viaggiare indietro nel tempo. L’appartamento raccoglieva oggetti di epoche passate, riposti in maniera meticolosa. Sedie in stile liberty erano disposte accanto a un grande armadio francese laccato. Un trumeau veneto faceva compagnia a due poltrone francesi in stile Luigi XVI. Una enorme libreria laccata ospitava dozzine di volumi impolverati. Su una lunga cassapanca erano state poste numerose fotografie, tutte rigorosamente in bianco e nero. In quella casa, sembrava che il tempo si fosse fermato.
― Si starà chiedendo che cosa ci faccia un appartamento ottocentesco nella Caserta del 2000 ― esordì Aliberti. ― A volte me lo domando anch’io. Diciamo che questa atmosfera fa stare bene me e mia moglie e vogliamo passare in letizia gli ultimi anni che ci restano da vivere. Sa che anche Adriana amava il nostro appartamento? Ce lo diceva spesso e penso che fosse sincera. La sua morte è stata una sciagura tremenda. L’ho detto anche ai carabinieri quando sono venuti qui. Ma lei non è delle forze dell’ordine, vero?
― No, come le dicevo, sono… ero un amico di Adriana e volevo solo scambiare quattro chiacchiere con chi la conosceva.
― E ha scelto le persone giuste. Io e mia moglie l’abbiamo assunta circa due anni fa. Sa, io soffro di artrite e mia moglie è costretta su una sedia a rotelle. Avevamo bisogno di una mano in casa. Era come una figlia per noi. Ieri ho pianto tutta la giornata. Mi sento molto triste per la sua scomparsa. E per la scomparsa della sua bellezza. Sa, Dottor Senzani, penso che la nostra epoca abbia bisogno di bellezza. Senza la bellezza, siamo destinati a scomparire.
― Ma la bellezza è causa di perdizione ― aggiunse una voce proveniente da un corpo magrissimo, che avanzava su una sedia a rotelle, spinto più da una inesauribile forza di volontà che dalla forza fisica: la signora Aliberti. ― La Chiesa ci ha insegnato che la bellezza è una chimera fallace, destinata a svanire in fretta e che trascina l’uomo alla perdizione.
― Già ― assentì commosso il marito che però subito si riprese. ― Mi scusi, dottor Senzani, non ci siamo neppure presentati. Mi chiamo Giuseppe Aliberti e questa è mia moglie Alessandra. Alessandra a volte ha idee un po’ stravaganti.
― In realtà, ― obiettò Giovanni, ― molti pensatori medievali ritenevano che la bellezza fisica fosse un pericolo per l’anima. È la dottrina del contemptus mundi, il disprezzo del mondo, una dottrina molto seguita da cui sono derivati componimenti e trattati di rilievo.
― Vedi Giuseppe che il dottore è d’accordo con me? Non come quegli esseri volgari che sono venuti a farci tutte quelle domande insulse: che tipo era Adriana, come si comportava con noi, se avevamo notato qualcosa di strano in lei ― disse la signora Aliberti.
― E pensare che l’ultimo giorno che l’abbiamo vista mi ha fatto un bel regalo ― si intromise Giuseppe Aliberti.
― Un regalo? ― domandò incuriosito Giovanni.
― Mi ha portato al parco della Reggia. Era una giornata stupenda e, a causa dei miei acciacchi, era tanto che non ci andavo.
― Ma negli orari di apertura del parco, Adriana lavorava come barista prima e segretaria dopo ― obiettò Giovanni. ― Se veniva da voi alle 20, non poteva portarla al parco.
― Ecco perché parlo di regalo. Quel giorno Adriana non è andata allo studio dentistico come al solito.
― Vuol dire che Adriana si trovava già dal pomeriggio al parco della Reggia dove poi è stata trovata morta?
Il viso di Giuseppe Aliberti si accese improvvisamente. ― Sì, dottore.
― E i carabinieri lo sanno?
― Credo di no ― intervenne la signora Aliberti. ― Naturalmente ci hanno chiesto quando avessimo visto Adriana viva l’ultima volta e noi abbiamo risposto intorno alle 23 quando siamo andati a dormire, come al solito, mentre Adriana occupava la stanza degli ospiti per la notte. Evidentemente, Adriana deve essere uscita di casa nella notte. Altrimenti non mi spiego che cosa ci facesse davanti alla Castelluccia alle 8 del mattino successivo.
― Ma di notte l’ingresso al parco non è consentito!
― Non so che cosa dirle ― rispose Giuseppe Aliberti. ― So solo che una delle persone più belle che abbia mai incontrato non c’è più. La morte è un mistero inspiegabile a cui neppure la bellezza sfugge.
La signora Aliberti rimase in silenzio e Giovanni Senzani si avviò all’uscita. Mentre camminava, lo sguardo si posò sulle fotografie in bianco e nero poste sul lungo cassettone. Erano moltissime, tanto che il mobile assomigliava quasi a un sacrario privato. Simulando un passo lento che non gli apparteneva, Giovanni diede un’occhiata ad alcune di esse. Ritraevano i coniugi Aliberti in varie fasi della vita. Volti sorridenti e corrucciati, in ambienti quotidiani o in occasioni speciali. Nonostante le differenze, una cosa accomunava tutte quelle immagini. I due erano fotografati sempre da soli. Nessuno compariva mai al loro fianco. Arrivato quasi alla fine della cassapanca, Giovanni notò un’eccezione. In una foto i due comparivano insieme a un ragazzo sorridente dall’aspetto timido. Quando la vide, Giovanni la afferrò improvvisamente e fece di tutto per soffocare la sua emozione. All’altezza dello zigomo era evidente una strana cicatrice, che assomigliava quasi a un tatuaggio.
― Nostro figlio Giorgio, dottor Senzani, ― disse Giuseppe Aliberti. ― Un eccellente ebanista. Anche lui conosceva Adriana.
― Cos’è quella strana cicatrice sul volto? ― fece Giovanni.
― Oh quella! Roba dell’infanzia. Giorgio è un bambino adottato. Viene da un orfanotrofio rumeno. Lì la vita era difficile.
― Giorgio e Adriana avevano qualcosa in comune, allora.
― Sì. Vengono entrambi dalla Romania. Ma Giorgio ha dimenticato tutto della sua infanzia. Non parla nemmeno rumeno.
― Già! ― fece Giovanni. ― Immagino che parli con un perfetto accento casertano.
Appena uscito dalla casa degli Aliberti, Giovanni Senzani fu raggiunto da una telefonata.
― Il dottor Senzani?
― Sì, chi è?
― Dottore, sono Piperno. Mi hanno dato il suo numero all’ufficio dove lavora. C’è una cosa che dovevo dirle e che mi è sfuggita. Lei, però, non me l’ha nemmeno chiesta. È grave per un detective.
Giovanni non diede seguito alla battuta. ― Che cosa le è sfuggito, Dottore?
«Il giorno prima di essere uccisa, Adriana non è venuta allo studio. Eravamo chiusi per inventario e mi ha detto che ne avrebbe approfittato per fare una passeggiata.
― Grazie, dottore.
― Mi ha detto anche un’altra cosa.
― Che cosa?
― Che aveva un problema da risolvere.
Quella notte Giovanni non riuscì a dormire. Sudò terribilmente e si alzò in continuazione. Sua moglie gli chiese se non fosse il caso di chiamare un medico. Giunte le 5, prese il telefono e formò un numero.
― Giovanni, ma sei tu? ― rispose la voce assonnata. ― Sono le cinque del mattino. Ma che vuoi a quest’ora?
― Daniele, avete sbagliato tutto. Incontriamoci al solito bar tra due ore. Offro io caffè e cornetti.
― Sì, però di cornetti me ne offri due, così impari a svegliarmi a quest’ora.
― Sii puntuale.
Il volto di Daniele Vitale era visibilmente irritato e la sua irritazione era solo in parte mitigata dal doppio cornetto alla nutella che assaporava come un bambino.
― Giovanni, ma ancora questa storia della Rebreanu. Ma quando capirai che il caso è chiuso?
― Assecondami un attimo. Dunque. Adriana viene uccisa e il suo corpo viene ritrovato alle 8 del mattino accanto alla magnolia della Castelluccia. È in perfetto ordine. Perfino i vestiti non presentano una grinza. E poi c’è la faccenda del cappello. E qui è il problema. La mafia rumena è conosciuta per la sua brutalità. Non ucciderebbe mai nessuno in quel modo. Se Adriana fosse stata uccisa da un malavitoso del suo paese, sarebbe stata torturata, violentata o chissà che! Lo hai detto tu stesso. Quelli sono spietati.
― Sì, ma…
― E invece sembra quasi che non le sia stato torto un capello. Perfino la ferita sulla gola sembra… timida. Quello che avete trovato non è casuale. Chi l’ha uccisa aveva rispetto per lei. Non la considerava un oggetto di carne come fa la criminalità rumena con le sue vittime. Oserei dire che le voleva bene.
― Le voleva bene?
― Ascoltami Daniele. A me sembra chiaro che chiunque l’abbia uccisa non appartenesse alla criminalità rumena. Ma c’è dell’altro. Ho fatto un po’ di indagini. Contrariamente alla sua routine, Adriana non era andata a lavorare il pomeriggio prima del giorno della sua morte. Me lo ha detto il dottor Piperno e lo ha confermato il signor Aliberti. Anzi, lo stesso Aliberti ha detto che, quel giorno, Adriana lo ha accompagnato al parco della Reggia. Adriana era nel parco dal pomeriggio.
― Ma noi abbiamo interrogato tutti gli addetti alla biglietteria. Nessuno si ricorda di Adriana.
― Dimentichi che Adriana al parco non ci andava mai e che al parco entrano centinaia di persone al giorno. Impossibile ricordarsi di tutti. Ma c’è dell’altro.
Daniele Vitale smise di centellinare il suo cornetto e lo ingoiò tutto in un boccone.
― Il dottor Piperno mi ha detto che Adriana andava al parco perché aveva un problema da risolvere. Penso di sapere quale fosse il problema.
― E cioè?
― Pensaci bene. Il corpo in ordine. Il cappello. La ferita timida. È chiaro. Prima ho detto che chi l’ha uccisa le voleva bene. Io penso che l’amasse. Di un amore tormentato e probabilmente non corrisposto. Daniele, dobbiamo cercare un amante deluso. E penso di sapere chi è.
Nei primi dieci minuti di conoscenza dell’uomo, Giovanni Senzani mentì tre volte. La prima quando gli strinse la mano e disse: ― Piacere. ― Non aveva affatto piacere nell’incontrarlo. Provava, anzi, disgusto, repulsione. La seconda fu quando l’uomo gli chiese: ― Come va? ― e Giovanni rispose: ― Bene, grazie. ― Non andava affatto bene. Lui si sentiva a disagio. Non era abituato a quella situazione e sperava di non doverla vivere mai più. La terza fu quando l’uomo gli chiese a cosa dovesse il piacere di quella visita e Giovanni rispose che era interessato a quello che faceva. Avrebbe voluto dirgli che era lì perché era uno spregevole assassino, ma cercò di controllarsi. Nei primi dieci minuti di conoscenza dell’uomo, Giovanni Senzani mentì tre volte. Ma riuscì a scoprire la verità.
― Mi dicono che lei è un eccellente ebanista.
L’uomo era visibilmente compiaciuto. ― Me la cavo. Chi le ha parlato di me?
― Suo padre, Giuseppe Aliberti.
― Conosce mio padre?
― Sì. Da ieri. ― A questo punto Giovanni guardò con severità l’uomo e lo affrontò direttamente. ― Signor Giorgio, perché ha ucciso Adriana?
― Ucciso? Io non ho ucciso nessuno. E poi il colpevole è già stato trovato.
― Il colpevole non è Dragomir Lungu, come dicono i carabinieri. Ma questo lei lo sa. Adriana era andata al parco per risolvere un problema. E quel problema, signor Giorgio, era lei. Un amore non corrisposto, come tanti. Ma lei non riusciva a sopportare il suo rifiuto. Ma non ha capito che uccidendo Adriana ha ucciso anche se stesso. Lei non è un assassino nato. Se non confessa, il rimorso la tormenterà per tutta la vita.
― Ma che sta dicendo?
― Lascia stare, Giorgio. Il dottor Senzani ha ragione ― pronunciò una voce stanca dal retrobottega. Giuseppe Aliberti avanzò fino a mettersi affianco al figlio. ― Non riuscirai più a vivere se non confessi. ― E poi, dopo un attimo di esitazione aggiunse: ― E nemmeno io.
― Ma papà che dici? Dobbiamo resistere, ricordi?
― Io non ce la faccio più a resistere, Giorgio. Abbiamo ucciso la bellezza. Il peccato più grave che si possa compiere oggi. ― Poi rivolgendosi a Giovanni Senzani: ― Quando ha visto quella fotografia, ho capito che per noi era finita. Sapevo che prima o poi qualcuno sarebbe risalito alla verità.
― È stato lei, vero, a mettere il corpo di Adriana in quella posizione e a disporre quel cappello sul suo capo?
― Era il minimo che potessi fare per lei. Siamo arrivati alla Castelluccia che era quasi l’ora di chiusura. Giorgio e Adriana discutevano animatamente. Intorno non c’era nessuno. Si erano avviati tutti verso l’uscita. Io cercavo di calmarli. Soprattutto Giorgio. Ma lui, a un certo punto, ha preso il coltello e…
― Non volevo. Davvero. Non volevo ― lo interruppe Giorgio in lacrime.
― Credevo che fosse solo ferita. Quando mi sono reso conto che era morta, mi è crollato il mondo addosso. Mi è venuto naturale disporre il suo corpo in quel modo. Con quel cappello. Apparteneva a una mia antenata, sa? Un segno di nobiltà. Perché Adriana aveva un cuore nobile. Poi abbiamo passato la notte nel parco e, al mattino, siamo rientrati confondendoci con i turisti.
Questa volta i cornetti li aveva offerti Daniele.
― Giovanni, ci hai fatto fare una figura che neanche te lo immagini. Lo sai che i miei colleghi non mi parlano più solo perché sei mio cugino? Abbiamo pure dovuto rilasciare quel pezzo di merda di Lungu. Mi sa che certe cose è meglio che non te le dico più.
Giovanni sorseggiò il caffè. Poi rispose: ― La brutta figura l’ha fatta il genere umano. Se noi siamo capaci di uccidere una come Adriana vuol dire che c’è qualcosa di marcio in noi, Daniele.
― Hai ragione. Anzi, sai che ti dico? Hai sentito parlare dell’omicidio di quei due braccianti africani? Quelli che lavoravano a Recale? Adesso ti spiego…
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