Anteprima
Dal Libro delle Profezie e degli Annunci
con la voce di Phestus Authinus, Sacerdote.
“Il Chiamato verrà e la Creazione sarà sconvolta.
Porterà in sé l’anima dei Cinque
e nulla sarà impossibile alla sua mano.
Ma molte lacrime verserà il Sommo
che reggerà la Torre in quei giorni
perché quando non resterà più pietra su pietra
l’umanità vagherà sola
nell’oscurità del non-senso.
Allora al Chiamato sarà tolto tutto ciò che gli è stato dato
e annienterà la sua vita
nell’altruismo e nella dedizione
fin quando l’Amore resterà come ultima parola.”
1
Quel giorno Leda aveva compiuto quattordici anni. Mentre strigliava energicamente la giumenta di famiglia nella stalla, sorrise tra sé.
Ripensò alla torta di mele appena sfornata che sua madre le aveva presentato a colazione, sollevando il panno bianco che la teneva al caldo e lasciando spandere nell’aria un profumo soave.
Per gli abitanti della Creazione compiere quattordici anni significava entrare nell’età adulta.
A quell’età le ragazze erano già fertili e potevano essere date in sposa, inoltre avevano raggiunto una maturità intellettuale sufficiente per diventare membri del Consiglio e occuparsi della casa e del bestiame in modo autonomo.
Leda era già da qualche anno idonea a quei compiti, ma che quella maturità le fosse ufficialmente riconosciuta dalla società era molto importante.
Forse era per questo che, per tutta la giornata, si era sentita elettrizzata ed euforica. Ormai era buio e il giorno era giunto al termine, eppure per lei era come se fosse solo l’inizio di quella data speciale.
Improvvisamente avvertì dei passi sul sentiero di ghiaia che conduceva alla porta di casa. Il vasto cortile, circondato dalla staccionata in legno, era ricoperto di neve e il suono degli stivali era ovattato dalla coltre bianca, non troppo spessa perché quel giorno aveva fatto più caldo che negli altri.
Il sorriso di Leda si allargò. Sapeva a chi appartenevano quei passi. Doveva aver visto la luce fioca della lampada a olio appesa alla trave del portone, e così aveva fatto una piccola deviazione per venire a salutarla.
«Fa freddo» disse la voce alle sue spalle. «Non vieni a casa?»
La ragazza finse di non averlo sentito arrivare e si girò con il sorriso sulle labbra. Sorriso che si spense subito, non appena vide l’espressione dell’uomo.
«Finisco tra un attimo» mormorò.
Farcus, suo padre, si girò, le spalle abbassate dal peso di troppi pensieri, poi si diresse verso casa. Leda rimase in silenzio ad ascoltare il cigolio della porta che si apriva, a una decina di metri di distanza dalla stalla, e che si richiuse poi con un tonfo.
Era accaduto qualcosa. Qualcosa di nuovo e di brutto.
Nonostante gli abiti spessi e il fiato caldo della giumenta la riscaldassero, sentì un brivido gelido pervaderla. Da quando Kargas e i suoi uomini avevano invaso Flower, il loro villaggio, e avevano preso gli abitanti come ostaggi, aveva visto spesso suo padre preoccupato, adirato o spaventato.
Ma mai come quella sera.
La parola che le era venuta in mente, quando aveva visto l’espressione del suo volto, era stata disperazione. Una parola che racchiudeva molti significati: inevitabile sconfitta, dolore, rassegnazione, assenza di speranza.
Una parola che lei non avrebbe dovuto conoscere, soprattutto alla sua età, soprattutto il giorno del suo compleanno.
Trenta uomini armati fino ai denti erano giunti a Flower all’inizio dell’autunno.
Erano guidati da Kargas, un uomo con una cicatrice sulla guancia, che andava dalla tempia alla mascella. Se fosse stata più profonda di qualche centimetro, gli avrebbe fatto letteralmente perdere la faccia, ma era sopravvissuto e il suo nemico, il vecchio capo della masnada di cui faceva parte, era stato trucidato da lui in modo esemplare, facendogli guadagnare la paura e il rispetto di tutti gli altri.
Non appena era giunto a Flower, Kargas aveva ucciso diversi contadini, dopo aver bruciato i campi e le case davanti ai loro occhi, poi aveva fatto violentare dai suoi uomini tre ragazze dell’età di Leda. Sulla piazza del villaggio, davanti a tutti.
Era passato come una furia, senza dire una parola, e se n’era andato altrettanto velocemente, senza dire chi fosse o perché avesse compiuto quei gesti efferati.
In quei giorni gli abitanti di Flower avevano persino creduto che si fosse trattato di un demone mandato dal Devrok, ma Suami, la vecchia sacerdotessa, aveva detto loro che si trattava di un uomo in carne e ossa, lasciandoli confusi e sgomenti per diversi giorni, a chiedersi il perché di quell’ingiustizia, nel timore che l’incubo si ripetesse.
Infatti, dopo una settimana, il bandito era ritornato. Aveva detto loro il suo nome e li aveva minacciati: se non gli avessero dato cibo, donne e riparo, avrebbe ucciso tutti.
Così l’autunno era passato e Kargas, insieme ai suoi uomini, aveva scialacquato le provviste che gli abitanti del villaggio avevano messo da parte perché bastassero per tutto l’inverno. I banditi si erano accampati nel bosco, all’esterno del villaggio, e venivano a prendere il cibo, e a volte delle ragazze, trascinandole via tra le loro urla e quelle dei familiari, ma dopo qualche giorno le lasciavano andare, scarmigliate e sconvolte, ferite e ammutolite.
Nessuna di loro parlava più per settimane.
Le scorte di cibo erano esaurite da tempo e la terra non dava frutti con il gelo, così i contadini, dopo mesi di soprusi, ormai erano affamati e terrorizzati.
Quell’anno Farcus, il padre di Leda, era il capo villaggio: periodicamente gli abitanti del borgo ne eleggevano uno nuovo, per evitare l’accentramento di troppo potere nelle mani di un solo uomo.
Non ci sarebbe potuto essere periodo più funesto per ricoprire quella carica, ma forse era stato per quella ragione che Leda, nonostante fosse una delle ragazze più graziose, non era ancora stata presa dai briganti per soddisfare le loro voglie.
Kargas era un uomo spietato, ma intelligente: sapeva che non poteva spingersi oltre un certo punto, a meno di non voler causare una rivolta. Non che non potesse avere la meglio su di loro, dei contadini armati solo di forconi, ma se li avesse trucidati tutti, avrebbe perso la sua fonte di sostentamento.
Leda aveva capito da tempo il ragionamento del bandito, ma non poteva fare a meno di notare i suoi viscidi occhi scivolarle addosso, ogni volta che la vedeva passare.
Il suo sguardo era come il tocco di un gelido e viscido serpente.
«Cosa ne sarà di noi?»
La voce, inaspettata, interruppe i suoi pensieri.
Leda si girò di scatto verso la porta della stalla: era stata la voce di suo padre a parlare, e lei l’aveva sentita forte, come se lui fosse stato dietro la sua schiena. Ma lui non c’era.
«Cos’è accaduto?»
Questa volta era la voce di Eudora, la moglie di Farcus. Era preoccupata, ansiosa.
«Di cosa avete parlato al Consiglio?»
Leda era certa che sua madre si trovasse in casa, dove l’aveva lasciata prima di recarsi nella stalla, a lavorare la lana con due grossi ferri, seduta sulla sedia a dondolo accanto al fuoco.
Si voltò da ogni parte, tesa e confusa, ma non la vide.
«L’imposta di Kargas è salita.»
Di nuovo la voce di Farcus.
«Non potremo mai pagarla… ci ucciderà tutti quanti!»
Leda trasalì.
È terribile, pensò la ragazzina. Ma sarà vero?
Quelle voci erano chiare e nitide. Poteva sentirle con le sue orecchie. Non potevano essere il frutto della sua immaginazione, anche se non vedeva le persone che parlavano. E non erano neppure urla che potesse avvertire fin lì, ma voci pacate, anzi sussurrate, come se non volessero farsi sentire da lei.
Però lei le sentiva attraverso le spesse pareti di pietra e fango, quelle della stalla e della casa, anche se i due edifici distavano una decina di metri l’uno dall’altro.
Com’era possibile?
Lasciò la stalla lentamente, continuando ad ascoltare le voci dei suoi genitori. Più si avvicinava alla casa, più le voci diventavano assordanti.
Quando oltrepassò la grande porta di legno della stalla, con il doppio battente, e si diresse verso casa, si bloccò, pietrificata da quello che vide: i suoi genitori erano accanto al camino e parlavano.
La stanza era illuminata dalla tenue luce del fuoco e dentro una pentola, appesa a un gancio sospeso sulla brace, lo stufato ribolliva.
Leda non avrebbe dovuto vedere quella scena, perché tra lei e i suoi genitori ci sarebbe dovuto essere il muro portante della casa, con la canna fumaria e le cataste di legna ammon-ticchiate in bell’ordine e appoggiate al muro.
Ma lei vedeva tutto, come nei teatrini delle marionette alla fiera del paese, dove una parete della stanza mancava per permettere agli spettatori di vedere i personaggi che si muovevano sulla scena.
Suo padre era seduto su una sedia, vicino al camino. Aveva appoggiato i gomiti sulle ginocchia e si teneva tra le mani il viso pallido. Sua madre si avvicinò a lui e gli posò una mano sulla spalla. Anche il suo viso era pallido.
Leda indietreggiò di qualche passo, scosse violentemente la testa e si mise le mani sugli occhi.
Quando le scostò, tremante, vide soltanto il muro della casa, scuro nella poca luce emanata dalla luna, e le voci erano cessate.
Rimase ferma. Il suo respiro era affannato, mentre il cuore le batteva forte.
«Cosa mi sta succedendo?» mormorò.
Ora che non sentiva più le voci e non poteva più vedere attraverso il muro, si chiese se non avesse immaginato tutto. C’era un solo modo per verificarlo.
Si diresse di corsa verso la casa ed entrò.
Suo padre era lì, con le mani strette intorno alla testa, mentre Eudora era in piedi, accanto a lui. Proprio come li aveva visti prima.
La pentola ribolliva sul fuoco. Leda era sicura che, quando era andata nella stalla, quella pentola non c’era, perché sua madre non aveva ancora cominciato a preparare la cena.
Non poteva averla immaginata. L’aveva vista per davvero attraverso la parete.
I suoi genitori si girarono a guardarla. Le lacrime che rigavano il viso di Farcus le fecero capire che la terribile notizia, che aveva sentito dalle voci, era vera.
Eudora si avvicinò alla figlia con apprensione, dopo averla vista diventare pallida all’improvviso.
«Tesoro, non ti senti bene?» le disse, scostandole dalla fronte una ciocca di capelli rosso scuro. «Sei così fredda!» E le posò una mano sulla fronte, dimenticando per un attimo i problemi del villaggio.
Anche suo padre si alzò e le venne incontro, con un’espressione preoccupata sul viso.
Leda fece un passo indietro. Per un attimo i suoi genitori le sembrarono irreali come fantasmi.
«Devo riposare» si limitò a dire, più rivolta a sé stessa che a loro, poi salì la scaletta di legno nascosta dietro una porta e sparì nella sua stanza.
Eudora e Farcus rimasero a guardarsi per un po’, con aria interrogativa, poi l’uomo sbatté con violenza il pugno sullo stipite della porta.
«Deve averci sentiti parlare. Questo maledetto bandito sta facendo perdere la spensieratezza ai nostri ragazzi» poi spostò il passante e chiuse la porta per la notte.
La donna gli si avvicinò e gli circondò la vita con le braccia, posandogli il mento sulla spalla.
«Vedrai che qualcosa accadrà. Abbiamo pregato tanto al Tempio, io e le altre donne di Flower, insieme alla vecchia Suami. L’Unico non ci abbandonerà.»
Farcus si girò e la strinse tra le braccia, affondando il viso nei capelli ramati della donna, belli come quelli che aveva trasmesso a sua figlia.
Sospirò.
«Non bisogna mai perdere la speranza.»
Leda tremava leggermente, e non era per il freddo. Si infilò sotto la coperta di lana, che la madre le aveva cucito pezzo per pezzo, e si girò su di un fianco.
La stanza era buia. I suoi occhi rimasero spalancati per un po’, nell’attesa, e anche nella paura, che quello strano fenomeno visivo si ripetesse. Ma davanti a sé, come sempre, vide soltanto la parete della stanza. Dopo qualche tempo, finalmente, li chiuse.
Fece fatica ad addormentarsi, ma quando ci riuscì, fece uno strano sogno: una luce soave, tendente all’azzurro, la circondava; la brezza le sfiorava i capelli… aveva la meravigliosa sensazione di essere al sicuro, pervasa da una serenità mai provata.
Piano piano vide avvicinarsi un volto, inizialmente sfocato, poi più nitido, ma sempre circondato da un’aura luminosa, tanto che non riusciva a identificarne i contorni.
Però vedeva chiaramente i suoi occhi e la sua bocca: era un uomo.
I lineamenti erano così delicati e belli che sarebbe stato difficile attribuire alla figura un sesso, ma lei sentiva che era maschile, o meglio, sentiva che lui si sarebbe definito così.
Gli occhi non avevano pupille e le iridi erano di colore celeste tendente all’acquamarina. Erano talmente luminosi che faceva fatica a guardarli.
Il volto si avvicinò sempre di più a lei, finché quegli occhi furono quasi dentro i suoi.
Sorrise — il sorriso più caldo e invitante che lei avesse mai visto — e le sussurrò, con una voce che sembrò fluirle dentro l’anima: «Non temere, io ti amo.»
Poi sollevò una mano, lucente come la luna, e la toccò, posando un dito sulle sue palpebre, sui lobi delle sue orecchie e sulla punta del suo naso.
Lentamente, com’era venuta, la visione si dissolse, lasciandole il tempo di imprimere quel volto meraviglioso nella sua memoria.
Poi Leda sprofondò in un’oscurità senza sogni.
2
Farcus aveva tentato per tutta la mattinata di mantenere l’ordine nella sala grande, annessa al Tempio dell’Unico.
Gli abitanti di Flower si erano riuniti tutti quanti, donne e bambini compresi, ed erano disperati, persino più di quanto non lo fossero stati una decina di anni prima, quando una grande carestia si era abbattuta sui loro campi e avevano corso il rischio di dover abbandonare le loro terre.
L’indomani Kargas si sarebbe presentato da loro e avrebbe richiesto un tributo che non erano più in grado di offrirgli, così dovevano prendere una decisione sul da farsi, e anche al più presto: non era possibile darsi alla fuga, perché i briganti erano accampati intorno al villaggio e di sicuro si sarebbero accorti di un tale esodo.
Avevano tentato diverse volte di mandare un messaggero a Dadonet, per chiedere aiuto, ma Kargas li aveva intercettati tutti e aveva mandato indietro solo qualche pezzo dei loro corpi, a sottolineare l’inutilità di quei tentativi.
Alcuni dei più giovani si erano alzati e avevano proposto di affrontare i banditi, dicendo che il loro maggior numero li avrebbe favoriti, ma il fabbro del villaggio, Parash, a quelle parole era balzato in piedi, rosso in viso.
«Avete già dimenticato che mio figlio è scomparso per un colpo di testa del genere» aveva urlato a quei ragazzi avventati.
Il figlio di Parash, Castor, aveva appena quindici anni quando era sparito.
Farcus lo conosceva bene, perché lui e Parash erano amici sin dall’infanzia e avevano sempre desiderato che Castor sposasse Leda, quando entrambi avessero raggiunto l’età per farlo.
Ma Castor aveva un carattere difficile, e a Leda sembrava non piacere molto: litigavano spesso e l’ultima volta era stata proprio qualche settimana prima, quando il fabbro e suo figlio avevano fatto loro visita. La discussione si era concentrata quasi subito sulla minaccia di Kargas, e il ragazzo aveva espresso la sua intenzione, come altri giovani del villaggio, di rendere pan per focaccia con la violenza ai banditi.
Lei lo aveva schernito, giustamente secondo Farcus, dicendogli che avrebbe rischiato la vita inutilmente perché gli uomini di Kargas erano ben addestrati e avevano armi micidiali, quindi avrebbero potuto tener testa a dei contadini armati di forconi, anche se fossero stati cento.
Castor si era infuriato ed era uscito dalla casa, sbattendo la porta.
Quella stessa sera, Parash e Mirtha, sua moglie, erano tornati da loro, disperati, chiedendo se avessero visto il figlio.
Il giorno dopo Castor non era ancora rientrato a casa. Erano state organizzate delle spedizioni nel bosco circostante per trovarlo, ma non si erano potuti spingere in là più di quel tanto, per paura di imbattersi in Kargas e nei suoi.
Farcus alzò le braccia per richiamare l’ordine, e per un attimo si fece silenzio.
Suami, la vecchia sacerdotessa dell’Unico, sedeva in fondo alla sala.
Farcus la guardò, implorandola di aiutarlo, ma lei scosse la testa: per giorni aveva pregato, ma non aveva ricevuto alcuna visione.
Il capo villaggio si prese il viso tra le mani, per cercare di scacciare il mal di testa e la disperazione che lo assillava già da tempo. Dopo un po’ il vociare riprese, e così anche le discussioni accese tra i ragazzi e Parash.
Leda era tra la folla e guardava suo padre. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poterlo aiutare. Era un uomo buono e onesto, mite e altruista.
Non trovava giusto che la responsabilità di tante vite ricadesse su di lui, ma a quanto pare era così che funzionava la società degli uomini: la maggior parte viveva la propria vita, badando ai propri affari, cercando di sopravvivere e di guadagnarsi la tanto agognata felicità, che nessuno sapeva ben definire.
Avere una casa, un lavoro onesto o meno, l’importante era che portasse denaro, cibo per sé e per chi si ama, e una vita più lunga possibile.
Ma per cosa poi? Per costruire cosa?
Leda si era sempre chiesta quale fosse la vera aspirazione di tutte quelle persone, e perché rimanevano così, stagione dopo stagione, ad aspettare di invecchiare.
Salvo poi, quando accadeva qualcosa che turbava la loro tranquillità, rivolgersi ai cosiddetti eroi, quelli che avrebbero dovuto rischiare la vita perché tutti tornassero alle loro comode e insignificanti vite.
Suo padre aveva il diritto, come gli altri, di tornare alla sua vita, ma non poteva, e non era abbastanza forte per essere un eroe. Non ne aveva le capacità.
Lo sarebbe stato perché il suo cuore era buono e generoso, ma un eroe senza spada e senza forza rischiava solo di essere un eroe morto.
D’un tratto un rumore assordante di zoccoli e nitriti selvaggi, uniti a grida e a risate, provenne dalla piazza principale.
Gli abitanti di Flower si riversarono fuori dalla sala delle riunioni e si ritrovarono davanti la masnada di briganti, capeggiata dal feroce Kargas.
Il suo cavallo aveva la schiuma alla bocca e le froge dilatate per la fatica di correre all’impazzata. Si impennò, nitrendo selvaggiamente, mentre il suo cavaliere snudava la spada con un clangore metallico.
«Dove sono le mie provviste?!» gridò. «Dove sono le mie donne?!»
Farcus si avvicinò al capo dei briganti, cercando di tenere un passo fermo e sicuro.
«Avevate detto che sareste arrivato domani… Adesso non abbiamo nulla di pronto» disse.
Kargas era un uomo alto e grosso. Una cicatrice gli solcava la barba scura, i capelli erano tagliati corti ed erano stati modellati a forma di punte con del grasso animale.
La sua mole imponente, da sopra il cavallo, torreggiava su Farcus, coprendolo con la sua ombra.
Il brigante sogghignò.
«Se puoi preparare tutto per domani, allora significa che puoi farlo anche per oggi.» E, sporgendosi dal cavallo, guardò il capo villaggio con gli occhi ridotti a due fessure. «Ma forse non hai proprio nulla da offrirmi, non è così? Forse stai solo prendendo tempo! Voi bifolchi pensate davvero di riuscire a trovare un modo per fermarmi?»
Si sollevò sulla sella e cominciò a far ruotare il cavallo su sé stesso per guardarli tutti, uno alla volta.
«È da tanto tempo che la mia spada non assaggia il sangue!» gridò. «Ma spero proprio che presto me ne darete l’occasione!»
A quell’affermazione i suoi uomini scoppiarono in risate sguaiate.
Farcus strinse i pugni fino a far diventare le nocche bianche. Tentò di pensare a cosa fare, ma la sua mente si rifiutava di mettere a fuoco un solo pensiero razionale.
Era un grumo di paura e di disperazione.
Leda era ferma accanto a sua madre, che le aveva preso una mano e la stava stringendo talmente forte da non farle più sentire il sangue scorrere nelle dita.
Lei però era così paralizzata dalla paura, che non fece caso alla stretta di Eudora, né tantomeno si sottrasse. Sentì crescere dentro di sé una rabbia feroce, che una ragazzina della sua età non avrebbe dovuto mai provare.
Nel frattempo gli uomini di Kargas erano scesi da cavallo e avevano cominciato a girare tra la gente, toccando le donne, palpando loro i seni e il didietro, e ridacchiando. Tutte erano troppo spaventate per reagire.
Il loro capo invece continuava a fissare i contadini, facendo impennare il suo cavallo per sembrare più minaccioso.
Non erano capitati molti eventi rilevanti nella vita di Leda, ma lei pensò che non ci fosse bisogno di sperimentare tante cose per riconoscere ciò che era giusto da ciò che era sbagliato. Alcuni dei grandi, soprattutto quelli che si vantavano di essere più istruiti degli altri, i commercianti, i dottori e chi aveva viaggiato, dicevano che tutto era relativo.
Ma in quel momento, l’evidenza dell’ingiustizia gridava forte nel suo cuore, e non c’era bisogno di conoscere tante cose per sentire che non doveva andare così, che non potevano pagare tutti per la vigliaccheria e la malvagità di uno solo.
Gli eroi salvavano gli altri, anche se non capiva bene in base a quale principio, e i tiranni usavano la forza per sé stessi, ma in entrambi i casi si trattava di uomini dotati di potere, che si distinguevano dagli altri spesso per un caso fortunato e non per merito.
Se lei avesse avuto quella forza, l’avrebbe usata per fare il bene, perché non poteva concepire che ci si potesse approfittare così della propria superiorità.
E se i grandi la disilludevano, dicendole che il mondo girava così, che chi aveva il potere lo usava per i propri scopi e per mettere i piedi in testa agli altri, lei non voleva crederci. Sperava sempre che si sbagliassero.
Del resto suo padre, pur non avendo alcun potere, stava ponendo la sua vita a difesa di tutti.
Guardò il bandito, sperando che lui si voltasse a fissarla.
Schifoso pallone gonfiato pensò con tutta la rabbia e il disgusto che provava dentro di sé. Ci sarebbe da ridere se il tuo cavallo diventasse cieco all’improvviso e ti disarcionasse!
Accadde in un attimo: mentre Kargas era ancora in piedi sulla sella, la bestia cominciò a nitrire forte e tutti poterono vedere i suoi occhi diventare improvvisamente vacui e grigi, come se una specie di cataratta si fosse materializzata sui suoi bulbi oculari.
Il cavallo cominciò a scalciare selvaggiamente e il suo cavaliere, per quanto lo stringesse forte con le gambe e si aggrappasse con la forza della disperazione alle redini, non riuscì a rimanere in sella e venne scagliato in avanti, finendo lungo disteso per terra. Nello stesso istante il velo sugli occhi della bestia si dissolse e l’animale tornò tranquillo.
Leda rimase a bocca aperta. Cominciò a sudare freddo.
Si guardò intorno per vedere se qualcuno se n’era accorto… ma di cosa poi?
Aveva desiderato che il cavallo diventasse cieco ed era successo, questo era vero, ma com’era possibile?
Lei non poteva essere la responsabile di quello che aveva tutta l’aria di un incantesimo!
Nessuno degli abitanti però la stava guardando. Tutti gli occhi erano fissi su Kargas, che in quel momento si stava rialzando da terra, scuotendo il fango dai calzoni e fissando torvo tutti gli abitanti di Flower, uno a uno.
Lei avrebbe dovuto cercare di far finta di nulla, se non voleva rischiare di essere uccisa, ma non riusciva a nascondere l’agitazione e la sensazione di confusione che l’avevano travolta.
Strinse forte la mano di sua madre. Eudora le fece appoggiare la testa sul suo seno, per abbracciarla. Quel gesto ebbe il potere di confortarla un poco, ma si accorse di tremare.
Poi, piano piano, un brivido leggero le corse lungo la schiena e, lentamente, un piacevole calore l’avvolse. Si ricordò del sogno della notte precedente.
Si ricordò il volto dell’uomo che aveva sognato, la sua voce dolce, che le diceva di non aver paura. Tenne il pensiero fisso su di lui, poi fece un profondo respiro e si calmò.
«Stregonerie, eh?» ringhiò Kargas agli abitanti del villaggio. «Non vi credevo così pieni di risorse, ma non cantate vittoria perché non mi farò spaventare così facilmente!»
Gli abitanti di Flower si guardavano intorno, atterriti e sgomenti, chiedendosi chi avesse osato provocare il bandito e temendo che quell’affronto non avrebbe giocato per nulla a loro favore.
D’un tratto, da un varco lasciato dalla gente, apparve Suami. La vecchia Sacerdotessa avanzò con passi lenti e malfermi, appoggiandosi al bastone.
Procedette così, senza essere fermata da nessuno, finché non si ritrovò davanti a Kargas.
Lo guardò dritto negli occhi.
«Tu non sai nemmeno cosa sia, la stregoneria! Se la cono-scessi, sapresti distinguerla dai Doni che solo i Cinque possono conferire.»
Kargas si drizzò in tutta la sua altezza e mise i pugni sui fianchi.
«Così sei stata tu, vecchia strega!» urlò, sovrastandola e tenendo il petto in fuori. «Adesso te la farò pagare!»
Suami scoppiò a ridere, una risata roca e acuta.
Tutti trasalirono. Pregarono l’Unico che la donna morisse di una morte veloce, perché erano sicuri che il bandito l’avrebbe uccisa, visto che l’aveva schernito così davanti a tutti.
«Se io fossi stata davvero capace di questo, se fossi stata per davvero una dei Chiamati, i benedetti dai Cinque figli dell’Unico, tu saresti già stato spazzato via senza neppure avere il tempo di rendertene conto!»
Leda ascoltava senza capire: dalle lezioni di religione che la vecchia Suami impartiva a tutti i bambini del villaggio, sapeva che l’Unico aveva cinque figli, e ognuno di loro lo aiutava a governare un aspetto della Creazione.
Sapeva che a volte i Cinque sceglievano dei Chiamati, ai quali davano dei Doni, delle abilità particolari che solo i Chiamati potevano avere, ma non conosceva né i Doni, né sapeva che cosa fossero.
«Come hai osato ridere di me?» ringhiò Kargas, ancora più forte. «Non so di che cosa farnetichi, vecchia, ma queste saranno le tue ultime parole!»
Sguainò la spada e la sollevò in alto. Era chiaro che voleva intimorire ancora di più i contadini e usare la donna come monito per tutti.
A breve la lama sarebbe calata sull’anziana e indifesa sacerdotessa.
Improvvisamente Leda sentì dentro di sé una specie di vibrazione: era come una eco lontanissima, che si stava avvicinando, anche se molto lentamente.
Sentì una voce sconosciuta, eppure familiare, che sussurrava.
Cercò di concentrarsi solo su quel suono, di escludere per un momento il dramma che stava accadendo intorno a lei. Dopo qualche istante riuscì a udire le parole che pronunciava:
«Aiutala, è il tuo compito.»
La ragazzina, come guidata da una forza estranea, lasciò la mano della madre e corse in avanti, andando a frapporsi tra l’anziana e la spada del bandito.
«Lasciala stare!» gridò. «Sono stata io!»
I banditi si zittirono. Un brusio meravigliato e ansioso si diffuse tra la folla.
Leda non avrebbe mai saputo dire da dove le fosse venuta quell’affermazione, ma del resto non sapeva nulla di magia, Chiamati, Doni o poteri.
Quello che era accaduto poteva essere stato una coincidenza: forse lei aveva pensato quelle cose proprio nel momento in cui qualcuno aveva operato una magia, qualcuno che lei non aveva visto, forse l’uomo del sogno.
Ma quell’ammissione di colpa era uscita spontaneamente dalle sue labbra, e lei non se ne pentì: in fondo al cuore aveva la certezza che era stata lei ad accecare il cavallo, che in un qualche modo ne era responsabile e che non doveva aver paura, perché quello strano potere le apparteneva.
Quella che aveva sentito era la voce dell’uomo del sogno: era stato lui a guidarla e infonderle sicurezza. Lo sconosciuto si era rivelato solo la sera prima, ma lei aveva già avvertito la sua presenza come familiare.
Sin da piccola aveva avuto la sensazione che qualcuno la proteggesse e l’accompagnasse sempre, come quella volta in cui era caduta nel fiume. La corrente era forte e la trascinava sott’acqua, ma lei aveva sentito chiaramente due braccia che la sospingevano in alto, la cullavano sulla corrente e la depositavano a riva. Aveva soltanto sei anni allora e dopo quell’episodio ce n’erano stati altri simili. Qualsiasi cosa accadesse si sentiva protetta e aveva sempre desiderato che il suo misterioso custode avesse un volto.
La notte scorsa aveva capito che si trattava proprio di lui. E ora sapeva perché aveva accettato di fare quello che lui le aveva chiesto, di aiutare la vecchia sacerdotessa, anche se non sapeva come.
Stette ferma davanti al bandito, guardandolo dritto negli occhi con le sopracciglia aggrottate e i pugni stretti.
Kargas osservò, stupito e incuriosito, la fanciulla che gli stava di fronte: era ancora giovane e il suo corpo era un po’ acerbo, ma stava già diventando una donna.
Aveva morbidi capelli color del rame, che le ricadevano leggeri sulle spalle, occhi splendenti, blu come lo era il mare nei punti dov’era più profondo, la pelle chiara e setosa e un po’ di lentiggini sparse sul naso. Di sicuro aveva già avuto il primo ciclo. Gli sembrò abbastanza forte da sostenere la monta di un uomo.
Rise dentro di sé all’idea che quella creatura così fragile avesse veramente operato quelle stregonerie. Forse era soltanto molto affezionata alla vecchia, e molto incosciente. Però gli piacque.
Rinfoderò la spada.
«D’accordo, per oggi basta con le stupidaggini» disse, sogghignando. «Mi avete fatto venire un gran mal di testa con i vostri giochetti!» Poi si rivolse a Farcus: «Domani voglio quello che ti ho chiesto, altrimenti morirete tutti. E stavolta faccio sul serio!»
Si girò quindi verso Leda e l’afferrò per un braccio.
«Tu vieni con me!»
La strattonò così forte che lei perse l’equilibrio e cadde a terra, ma l’uomo la sollevò di peso e la issò sul cavallo, poi anche lui montò in sella.
«Ti prego!» urlò Farcus. «Lasciala stare! Se vuoi un ostaggio, prendi me!»
Kargas ridacchiò.
«Che me ne faccio di te? Stanotte le grazie della ragazzina mi rimetteranno in sesto, e se mi piacerà forse non la ucciderò!»
Tirò le redini. Il destriero si impennò, poi partì al galoppo. I suoi uomini lo seguirono.
Leda si ritrovò a pancia in giù, sulla sella del cavallo, con le gambe a penzoloni da un lato e la testa dall’altro. Provò a divincolarsi e a gridare all’uomo di lasciarla andare, ma il brigante la colpì alla nuca con l’elsa della spada e perse i sensi.
3
Luker prese il secchio con dentro i rifiuti e si recò al trogolo, per dare da mangiare ai maiali. Era l’ultimo compito della giornata, o almeno così sperava, ma non ci contava troppo.
La Signora, come voleva essere chiamata sua madre, avrebbe potuto chiamarlo da un momento all’altro per affidargli qualche altra faccenda, magari inutile, giusto per non farlo dormire. Ormai era talmente abituato a quell’evenienza che, quando si alzava la mattina presto, non si preoccupava più dell’immensa quantità di lavoro che la donna gli urlava di fare.
Quando era piccolo, aveva provato a fare le cose in fretta, mettendoci il massimo dell’impegno per farle bene — altrimenti gliele avrebbe fatte fare di nuovo — per poter poi andare a giocare. Ma, ogni volta che lo vedeva senza uno straccio o una vanga in mano, lei si arrabbiava e gli gridava che era un buono a nulla, poi lo picchiava con un bastone, o peggio.
Ormai per lui la giornata non aveva delle ore in cui potesse dedicarsi a fare ciò che gli piaceva, e per questo aveva dovuto trovare un modo per procurarsi quel tempo.
I maiali si gettarono sul cibo. Lui dovette togliere in fretta le mani, altrimenti quei diavoli lo avrebbero morsicato.
A loro non importa di nulla pensò il ragazzo. Badano solo a sé stessi.
Forse qualcuno li avrebbe invidiati, ma non lui. I maiali erano solo degli stupidi animali, mentre lui, in quanto essere umano, aveva un grande vantaggio su tutto il resto della Creazione: la sua intelligenza.
Prese un pizzico del catrame che aveva in tasca, poi lo modellò con le dita, martoriate dalle schegge di legno e con le unghie bordate di nero per lo sporco.
Lo sentì appiccicoso. Guardò dentro l’oscurità profonda di quel nero senza alcun riflesso, poi lo mise in bocca e, dopo averlo inghiottito, sputò per terra.
Tra le pieghe del terreno fangoso cominciò a crescere una piantina striminzita e nera. Crebbe in un lampo e, quando fu alta fino al suo ginocchio, iniziò a produrre dei piccoli frutti rugosi. Luker li raccolse e li mise in tasca.
La Signora era ignara di quella sua capacità, così, se gli avesse dato altro lavoro da fare, impedendogli di riposare, lui avrebbe mangiato una di quelle bacche e si sarebbe subito sentito ristorato e in forze.
Aveva trovato un modo per prendersi il suo tempo, e lo aveva fatto imparando a usare il suo potere.
Sua madre lo aveva sempre disdegnato, perché era maschio.
Le streghe sono donne, gli diceva sempre, e quasi si odiava per non aver messo al mondo la bambina che desiderava, al posto di quell’inutile essere. Lo aveva tenuto perché le serviva uno sguattero, e non perdeva occasione per farglielo notare.
Per Luker era sempre stato così: sua madre lo disprezzava con tutta sé stessa e provava quasi gusto a maltrattarlo, ma lui, contrariamente a quanto lei sosteneva, aveva scoperto di poter usare il potere.
Era capitato il giorno in cui le ferite delle frustate sulla schiena gli si erano infettate. Gli era venuta anche la febbre alta, ma alla Signora non era importato: Luker aveva pensato che forse non aspettava altro che di vederlo morire.
Si era rifugiato nel fresco delle foglie del bosco, perché si sentiva ardere. Si era buttato a terra, con la faccia nel fango del sottobosco, e aveva aspettato di scivolare nell’oblio, mentre la vista si appannava e le orecchie ronzavano.
Poi però aveva sentito qualcosa dentro di sé. Non era proprio una voce, era piuttosto come se il suo inconscio avesse cominciato a emettere pensieri sconnessi e turbinosi nella sua mente:
— Perché le permetti di trattarti così?
— Cos’altro potrei fare?
— Ribellarti!
— E con quale forza? Sto per morire.
— Non vedi come vanno le cose intorno a te? Ci sono semi che hanno bisogno di attenzioni e cure per germogliare e crescere, ma sono deboli e gracili, e se non sono protetti muoiono. Ce ne sono altri invece che li butti nel fitto del bosco, con gli animali e i vermi che li bramano, o li abbandoni nel deserto senz’acqua, e loro cre-scono lo stesso. E sono così forti che nessuno può sradicarli! Tu che cosa vuoi essere?
— Io voglio essere quello che sono!
— E cosa sei? Chi sei? Lascerai che finisca tutto così?
— Sono un maschio, non posso essere una strega, mia madre mi ha ripudiato fin dal giorno in cui sono nato! È questo quello che sono: niente.
— È davvero così? Senti dentro di te che davvero sei un niente? Sei tu a decidere cosa vuoi essere! Decidi! Decidi!
— Voglio essere forte, voglio essere libero, voglio uccidere mia madre!
— Non puoi finché lei è più forte di te!
— Come posso fare per essere più forte di lei?
— Prenditi il suo potere. Come lei lo prende dalle cose e dagli esseri viventi, dalla terra e dal fango, dal sangue e dalla morte. Prendilo!
Per evitare di perdere i sensi, aveva stretto i pugni così forte da conficcarsi le unghie nel palmo della mano. Si era alzato, lentamente, e si era diretto verso il torrente, barcollando.
Lo aveva toccato con una mano, come aveva visto fare alla Signora quella volta in cui l’aveva seguita di nascosto. E aveva sentito un brivido corrergli per tutto il corpo.
Allora non lo sapeva ancora, ma quello, l’energia che sta dentro tutte le cose, era il potere e lui desiderò che trasfor-masse ciò che era in ciò che lui voleva che fosse.
«Sono io che decido» aveva detto.
L’acqua della sorgente era diventata nera e lui ci si era bagnato dentro. Dopo qualche ora era tornato a riva. Era guarito e aveva imparato a usare il potere.
Un giorno lo avrebbe usato contro di lei, ma fino ad allora avrebbe cercato di apprendere più che poteva, facendo attenzione a non farsi scoprire.
I maiali avevano mangiato e la Signora non lo aveva cercato.
Si recò quindi sul retro della casa, nel giardino posteriore. Si avvicinò alla catasta di legna accumulata per l’inverno e frugò tra i tronchi, finché non trovò quello che cercava: un sacco di tela sporco e sdrucito.
Qualcosa si muoveva e miagolava nel sacco.
Luker si mise il fardello sulle spalle e cominciò ad arrampicarsi in verticale sul muro della casa, poi lungo la canna fumaria che sporgeva all’esterno della costruzione, fino a quando non raggiunse la sommità del comignolo.
Aveva affrontato quel percorso quasi ogni giorno, da quando aveva imparato a rendere le sue mani e i suoi piedi appiccicosi. Saliva lì e guardava il panorama sotto di sé, ma non perché gli piacesse ammirare il bosco o il tramonto, bensì per sentirsi più in alto di lei e per pregustare il momento in cui l’avrebbe schiacciata.
Aprì il sacco e prese uno dei due gattini neri che vi aveva rinchiuso. Erano ancora ciechi, non potevano avere più di un mese di vita.
Li aveva partoriti la gatta nera di sua madre, che sicuramente ne avrebbe fatto dei viziati e inutili animali da compagnia. Tenendo la bestiola con una mano, sporse il braccio oltre l’orlo del comignolo e lasciò la presa.
Il gattino precipitò nel vuoto e Luker, dopo qualche istante, sentì con sottile compiacimento il rumore del suo piccolo corpicino spiaccicarsi al suolo.
Ritornò a terra, con l’altro gatto nel sacco. Quando arrivò ai piedi del piccolo cadavere, aprì il sacco e mise il fratellino vivo vicino a quello morto.
Il secondo gattino annusò per un po’, poi si girò da un’altra parte e cominciò a cercare il cibo.
«Molto interessante» mormorò il ragazzo. «L’istinto di sopravvivenza. Gli animali sentono la paura, perché altrimenti si getterebbero da soli nel fuoco, ma non hanno il senso della morte.»
Prese il secondo gattino. Cominciò ad accarezzarlo.
«Non rimangono a chiedersi cosa ci sia dopo o perché si debba morire, e non hanno poi chissà quali sentimenti» continuò. «Davvero molto interessante.»
Con noncuranza afferrò la testolina dell’animale e tirò fino a quando, dopo un leggero crack, non lo sentì afflosciarsi tra le sue mani.
Si rese conto troppo tardi che il rumore del gattino che cadeva al suolo, da quell’altezza, non era passato inosservato.
Quando la strega uscì di casa aveva già lo scudiscio in mano. Non sapeva cosa lui avesse combinato, ma anche se non avesse fatto nulla di male era già pronta a punirlo. E Luker sapeva che non avrebbe potuto evitarlo.
La donna vide i due corpicini a terra e per qualche secondo un’espressione di falsa tristezza le si dipinse sul volto. Luker sapeva che in realtà era soltanto seccata di aver perso due nuovi giocattolini.
«E così non hai nulla da fare, eh?!» strillò, poi si diresse con passi veloci verso di lui.
Indossava la veste da notte con il pizzo nero, ma nella foga la cintura che la teneva chiusa si era slacciata. Sotto di essa il corpo della donna appariva giovane e florido, come se avesse soltanto trent’anni. In realtà ne aveva quasi il doppio.
Luker pensò che era un vero spreco usare il potere per quella ragione: di fatto nessuno, a parte lui, avrebbe notato la sua finta giovinezza, visto che la strega viveva appartata nel bosco da sempre.
«Quegli animali mi servivano!» continuò a strillare. «Ma tu che ne puoi sapere? Tu che ne capisci di magia?»
Luker sogghignò.
Molto più di quanto immagini pensò, ma non lo disse.
Chinò il capo e rimase in attesa, sapendo che qualsiasi parola detta da lui non avrebbe fatto altro che far infuriare ancora di più la madre.
«Solleva la casacca» gli intimò.
Il ragazzo obbedì, rassegnato. Quando la frusta si abbatté sulla sua schiena, dove una miriade di altre cicatrici disegnavano già un’orrida rete, pensò che in fondo quel giorno aveva imparato molte cose e che il dolore di quell’attimo non era nulla paragonato alla vendetta che stava preparando.
wlmedizioni –
Recensione di Leo D’Amato sunto dal blog Isola Illion 09 Aprile 2014
I Cinque Doni – La Chiamata giunge come una boccata d’ossigeno per chi si aggiri sulla Luna, come un sorso d’acqua per chi si muove nel deserto: è un romanzo, il primo di una serie, che rivela un lavoro valido a monte […] e rivela un’ottima capacità di mescolare le vicende ed i punti di vista dei vari personaggi, fino a farle confluire in una unica storia, un’unica descrizione, salvaguardando fino all’ultimo la suspance e l’attrattiva verso le vicende. Il lettore viene stimolato con varie trovate e c’è persino spazio per un’ulteriore vicenda alla fine della storia principale che non può non ricordare Dragonlance. Le illustrazioni sono davvero molto curate (alcune le avete potute ammirare in questa pagina, e come ho detto prima sono realizzate da Jonathan Neimeister) e perciò si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un’opera completa e matura per la pubblicazione. È un libro che mi è piaciuto molto, che ha tanto da raccontare e che riesce ad omaggiare una tradizione di determinati autori a me particolarmente cara (Tolkien, Lewis, Weis & Hickman ed altri) senza scopiazzarli o scimmiottarli male come fanno alcuni; in più è un libro che conquista doppiamente, perché scrittori italiani che riescano a tirar fuori un’opera di questa qualità al loro primo tentativo si possono davvero contare sulle dita di una mano.