Anteprima
Le magnificenze di Madama Reale
Madama Cristina giaceva sul gran seggiolone al centro della Sala delle Magnificenze. Dal sontuoso involto di velluto nero tempestato di rose in madreperla, la perla madre del viso emergeva appena, cadaverica, del tutto immemore dell’avvenenza antica.
Si mosse lentamente. Alzò il braccio destro, poi la testolina. Si stropicciò gli occhi e li aprì.
Le piaceva trovarsi in quella stanza e su quel trono. Entrambi non le appartenevano più, essendo ormai passati sotto le competenze del governo di suo figlio. Ma in sua assenza – cioè quasi sempre – amava ritirarsi lì, immaginarsi ancora regina, ripensare soddisfatta alle imprese della sua vita.
Era ormai la sua principale occupazione privata, da svolgere con diligenza tra un rosario e l’altro, nelle pause tra le abbondanti torture liturgiche alle quali era ostentatamente dedita per la maggior parte del suo tempo, ora che stufa della fama di vedova gaudente, si era messa in testa di apparire saggia e pia, nella segreta speranza, dopo una vita passata tra i profumi del potere, di morire un giorno in odor di santità.
Alzò lo sguardo al fregio del soffitto, dove aveva fatto dipingere in dodici riquadri le più significative imprese architettoniche di cui si era resa protagonista negli anni passati, e le ripassò ad una ad una.
Nel primo riquadro glorioso si contemplava il palazzo ducale.
L’aveva conosciuto a tredici anni, in quel lontano 1619, quando l’avevano spedita in sposa a Vittorio Amedeo; lei figlia del re di Francia, innamorata del principe di Galles.
L’aveva odiato. Non le era parso vero di dover passare la vita in quella specie di casale appena decorato, dove dietro una facciata protocollare e senza balconi, non c’era nulla: solo il cantiere interrotto di una gran cappella sulla sinistra, a destra le fondamenta di un pezzo di edificio, al centro un unico corpo di fabbrica più o meno compiuto.
L’avevano portata all’ultimo piano, tra musiche e inchini, a consumare per la prima volta i doveri coniugali. Assistevano alla cerimonia erotica i vari dignitari della sua nuova corte, ed era presente, in qualità di testimone garante delle prestazioni, il fratello maggiore Luigi XIII.
Povero Luigi! Anche lui ammogliato per forza poco dopo la pubertà, ne era rimasto talmente imbarazzato da guadagnarsi il sospetto di “figlio della luna”. Dopo quattro anni di matrimonio non aveva ancora eredi, né accennava a preoccuparsene. Quella sera Cristina l’aveva guardato con complicità; gli aveva strizzato l’occhio; poi si era girata a occuparsi del suo novello sposo. Un attimo di concentrazione, una simulazione d’innamoramento, e aveva cominciato a sbranarlo di passione per tutta la notte. A fine lavori era riemersa dalle cortine del letto, lanciando una nuova occhiatina al fratello: “Ebbene Sire, fate dunque voi la stessa cosa con la regina.”
Nel corso degli anni, quel casone era diventato quasi un vero Palazzo Reale.
Già il suocero Carlo Emanuele I si era reso conto che non era adatto a tenerci in casa una principessa borbonica, e si era dato da fare per ingrandirlo un po’. Lei stessa, alla morte del vecchio duca e, poco dopo, del marito, aveva continuato l’opera tra una guerra civile e l’altra.
Aveva fatto contornare di portici la corte, erigere nuove maniche laterali, e quattro torrioni sugli angoli che lo rendevano simile a un castello del nord Europa. Solo sul quarto lato aveva voluto lasciare una maggior impronta di femminilità, scegliendo una costruzione bassa, un semplice porticato passante, con una lunga terrazza di sopra, da cui si scorgessero i giardini, il Regio Parco e più in là la Dora e il paesaggio piemontese. Un altro portico si snodava sul davanti, tra il cortile d’onore e la piazza, filtrando la vista della facciata ora riccamente ornata. Al centro aveva un terrazzo ottagonale sul quale, nei giorni di festa grossa, si issava un padiglione di legno che serviva per l’affaccio dei principi o per l’ostensione della Sindone.
Ultimamente aveva poi fatto rinnovare tutti gli interni, per renderli degni del prossimo matrimonio di suo figlio, ormai giovane duca col nome di Carlo Emanuele II. Ora si accedeva agli appartamenti attraverso un pomposissimo scalone che dava entrata a un salone di dimensioni smisurate, tutto dipinto. Qui si dipartivano due teorie di stanze, la più esterna di competenza della duchessa, l’altra di pertinenza del duca: erano formate ciascuna da tre anticamere, attraverso le quali ci si avvicinava alla sala di ricevimento di lei e a quella del trono del marito. Da lì si raggiungeva poi l’alcova nunziale, teatralmente incorniciata da una triplice arcata, tra un tripudio di cariatidi dal ventre gravido, putti in legno dorato, fiori e svolazzi da far invidia ai parenti parigini.
Il secondo riquadro era dedicato alla chiesa del Monte dei Cappuccini.
Ormai quasi antica, costruita alla vecchia “maniera” per il debutto del vecchio Carlo Emanuele, non le era tanto simpatica perché le ricordava troppo certe architetture italiane, tutto paraste, timpani e cornici in bianco e nero.
Ma non aveva potuto astenersi dall’aggiungerci qualcosa, perché una regina deve sempre fare così. E la duchessa di Savoia era anche regina. “Regina di Cipro”, cioè regina per finta, in virtù di un documento di secoli prima e mai più citato da nessuno. Ma sempre regina.
E in qualità di regina aveva fatto affrescare gli interni di Santa Maria del Monte e donato un nuovo superbo altar maggiore con tanto di Madonna incoronata.
Lassù si era ritirata spesso per i suoi incontri riservati col proprio confessore, padre Pietro Monod, ottimo dispensatore di buoni consigli… e bello come il sole.
Terzo riquadro: il palazzo di San Giovanni.
Un piccolo fallimento.
Avevano iniziato a costruirlo nel 1630, proprio per lei e per il principe Vittorio, non ancora saliti al trono. Sarebbe stato bellissimo, con una facciata scandita da colonne giganti e un attico tutto ornato di statue e balaustri. Ma era subito arrivata la peste, e poco dopo era morto il duca suocero. Lei e il marito, ora nuovo duca, si limitarono dunque a scendere di un piano le scale di palazzo reale, e a occuparne ufficialmente le sale da parata. I lavori in piazza del duomo rimasero fermi.
Nel ’33 si era tentato di ricominciare da capo, ma quattro anni dopo ci furono i fattacci legati alla scomparsa del marito. I cognati pretendevano il trono; i parenti d’oltralpe lo volevano per sé; c’erano i figli piccoli da proteggere dalle grinfie dei contendenti… Madama si guardò per un pezzo dal mettere piede a Torino, e poi si risolse ad alloggiare alternativamente al Valentino o nella vecchia sede di porta decumana, Palazzo Madama per l’appunto, che aveva fatto un po’ rimodernare coprendo la corte medioevale e realizzando al suo posto un grandioso salone d’onore.
L’idea di disporre di ben due dimore tutte sue, ben separate dalla residenza del giovane duca, si era rivelata vincente: in apparenza, Cristina non aveva niente a che spartire con le stanze della politica; in pratica, dalle sue logge di piazza Castello, si controllava perfettamente chiunque si avvicinasse all’augusto seggio di suo figlio, sia che arrivasse a Torino da via Dora Grossa (e cioè dalla Francia) o dalla strada di Po. Quanto alla sua amata residenza fluviale, era così appartata che nessuno poteva immaginare che i convegni più importanti, politici e non solo, avvenissero proprio lì.
Il quarto riquadro inquadrava il secondo fallimento: Miraflores.
Era stata la sua prima residenza extraurbana. Costruita anch’essa dal suocero Carlo Emanuele per la moglie Caterina d’Asburgo che lei non aveva mai conosciuto, non era mai giunta ai fasti persino smodati che si promettevano nei progetti. Ma lei ci stava bene e vi aveva organizzato cacce leggendarie e passeggiate entusiasmanti.
I suoi parenti francesi invece l’avevano presa in uggia. In lotta coi famosi cognati sabaudi principe Tommaso e cardinal Maurizio contendenti al trono, avevano seguito il consiglio di Maurizio stesso, il quale aveva scritto in una lettera, che Cristina andava un po’ troppo in giro “da sola” per i boschi di Mirafiori. E l’avevano bombardata.
Nel quinto riquadro, la contrada di Po.
L’aveva voluta bella larga: “che ci passino sei carrozze!” si era raccomandata. E completamente lastricata come le strade degli antichi romani.
Più o meno a metà vi aveva fatto costruire la chiesa dei padri di San Francesco da Paola, e sullo sfondo, di là dal fiume, la villa per sua figlia Luisa, sacrificata per rappacificazione allo stesso cognato cardinale, che ottenuta la dispensa, l’aveva presa in sposa a tredici anni (pure lei). Atto ignominioso sul piano morale, ma utilissimo per restituire la pace in Piemonte. E si sa: matrimoni e amori son cose diverse, e se c’è passione, qualunque uomo è buono per innamorarsene. Cristina lo sapeva bene.
Ora stava meditando di fare di via Po una contrada ancora più splendente, aggiungendovi la sede degli Studi e quella dell’Ospizio di Carità. Tutte cose da inventare, che però le accarezzavano la mente. Sicuramente la voleva più bella, e per questo aveva commissionato ai conti Carlo e Amedeo Cognengo di Castellamonte architetti di corte, un progetto per renderla completamente ed uniformemente porticata, cosicché madama potesse andare a piedi dal suo palazzo fino al fiume senza prendere la pioggia.
Nel sesto riquadro, la Porta Nuova, da cui partivano i viali per Miraflores, Moncalieri e Valentino.
Immetteva nella “via Nuova” e quindi in piazza san Carlo, altra sua splendida creatura, modellata sulle idee urbanistiche già sperimentate a Parigi da suo padre, ma più evoluta e sorprendente nella sua luminosa regolarità. Le era familiare perché ci passava tutti i giorni, quando andava a farsi martoriare dalle monache di Santa Cristina, in espiazione per gli abomini di cui sopra.
Prima di passare al settimo riquadro, dedicato ad Asti con la sua doppia cinta muraria, notò che mancava proprio un dipinto del castello del Valentino. Ma ad esso i retori di corte avevano dedicato un intero altro soffitto, nella sala “della nascita dei fiori”, sua camera da letto ufficiale.
Era la delizia a cui si sentiva più legata. Aveva chiesto ai Castellamonte di inventare qualcosa che ricordasse la sua Francia, e gli architetti avevano disegnato un castello come quelli della Loira, il cui cortile quadrangolare era serrato da torrioni dal tetto aguzzo in pietra blu. Tra un torrione e l’altro avevano però lanciato lunghi porticati di romanissima memoria, ma molto più leggeri di quelli di un acquedotto, sorretti da colonnine in tenue marmo rosa e sormontati da terrazze panoramiche con vasi e fiori. Madama non li aveva tanto apprezzati, dicendo che avrebbe preferito qualche stanza in più. Ma in fondo li amava.
Al piano terra le avevano regalato un atrio luminosissimo, tutto verande e colonnette, ornato da statue di varie deità romane. Ai lati, in due gruppi di stanze, aveva fatto raccogliere così tanti quadri da farne perdere il conto.
Entrò non annunciato il suo più fido consigliere, Filippo d’Agliè.
Lei ebbe un sobbalzo.
Aveva sempre avuto una stima folle per il quasi coetaneo Filippo Giuseppe Sanmartino d’Agliè marchese di San Damiano e Rivarolo, politico astutissimo, uomo di raffinata cultura, poeta, musicista, coreografo, gran ballerino, coraggioso cacciatore, bello nell’animo e nella persona, che tanto l’aveva aiutata, e consolata, nei tempi difficili dopo la morte del marito.
E quando Madama stimava follemente, amava. E quando amava, perdeva la testa. Ancora ora che si voleva ormai lontana da Cupido e dal governo, il materializzarsi improvviso del suo Filippo la mandava in orgasmi. Ribolliva.
Si avvicinò e le parlò sotto voce. Le portava una notizia per niente magnifica: gli era giunta voce da persone dabbene, che il confessore delle Carmelitane scalze avesse rivelato che il duca suo figlio aveva detto in confessione, che il padre dell’innocente neonata di madamigella Maria Giovanna marchesa di Trecesson già promessa sposa al conte Maurizio Pompilio Benso di Cavour, era in realtà il principe medesimo. In sostanza: Carlo Emanuele ne aveva fatta un’altra delle sue.
Non gli era bastato ingravidare madamoiselle una volta, regalandole una figliola che si era dovuto destinare alla monacazione. Toccava ora adattarsi all’idea di una nuova monachina. Nella speranza che nessuno sapesse, perché le nozze del principe – quelle vere, politiche, per le quali ella aveva speso anni di equilibrismi – erano bell’e pronte.
Non voleva proprio capire, l’esuberante, che le cose van fatte con precauzione. Passino gli slanci giovanili, ma un salterello a marcia indietro per il bene del Piemonte, non è mica la morte!
Madama si mostrò furiosa. E la furia e l’argomento di discussione le risvegliarono l’appetito.
Tirò un gran respiro, gonfiò il seno e tese il lungo collo.
Occhi sgranati e labbra contratte, guardò dall’alto il suo Filippo.
“E sia” gli disse.
E lui capì. Si discostò dal trono con un breve inchino. Andò verso la porta sinistra della sala, che immetteva nella camera da letto, e l’attraversò.
Maria Cristina attese, un po’ per intimo sfoggio di pudore e un po’ per ricapitolare le forze. Poi si alzò di scatto e corse verso di lui.
Entrò nella stanza. Lui non c’era. Aveva però lasciata aperta un’altra porta di fronte: quella del Gabinetto di Ercole, a destra del letto.
Lei si avvicinò. Lo vide. E si inginocchiò ai suoi piedi.
“Il coefficiente di trasmissione termica del legno!”
Mi svegliai di scatto e sollevai la testa dal banco su cui mi ero addormentato. “Oh madonna” pensai “il fantasma del cardinal Maurizio!” Ero al Valentino, aula 13, terza fila.
“Benvenuto tra noi ragazzo. Il coefficiente di trasmissione termica del legno. Se lo ricorda per caso?”
Il professore di fisica tecnica, famoso per le sue spiegazioni stimolanti come una minestrina a mezzogiorno, aveva quel modo lì di rendere più effervescente la lezione: svegliare i numerosi studenti accotolati, ponendo domande banali quanto improvvise, tipo Rischiatutto.
L’ideale per la crescita culturale di uno studente di architettura di metà anni ottanta.
Tutti prima o poi erano stati accolti coi suoi “benvenuto tra noi”, salvo un paio di secchione ingegneresse mancate, fuggite dal maschilismo imperante in corso Duca degli Abruzzi e rifugiate come Madama Cristina al Valentino, dove capivano più di fisica tecnica che d’arte.
“Zero quattordici professore. Zero quattordici.” Fregato!
Palazzo ducale, oggi Palazzo Reale, Piazzetta Reale 1. Il corpo principale del complesso è costituito dall’edificio quadrangolare degli appartamenti reali, in fondo al cortile d’onore (oggi Piazzetta Reale). Fu costruito sulle rovine del precedente palazzo vescovile, per volere di Carlo Emanuele I (Ascanio Vittozzi 1584). I torrioni si devono a Carlo Morello (1640-‘56), come le maniche porticate est e ovest interne al cortile (1661). Egli costruì anche una bassa manica porticata a chiusura del lato nord della corte, con terrazza ornata da balaustre e statue, poi sostituita.
Gli si deve anche lo scalone d’onore, le decorazioni del salone “della guardia svizzera” e delle sale da parata del primo piano nobile (con Michelangelo Morello, Gian Francesco e Antonio Fea e altri, 1658-‘62).
La decorazione di facciata con elementi di scuola “luganese” segue un progetto di Carlo e Amedeo di Castellamonte (1658). Sotto Carlo Emanuele II fu ispessita la manica di levante (Lanfranchi 1684), ricavando i nuovi appartamenti “delle principesse” al piano terra, (poi detti “di Madama Felicita”) e la galleria “del Daniel” al primo piano (Daniel Seyter 1684). Per le nozze di Carlo Emanuele III, si realizzò la “Scala delle forbici”, che porta all’appartamento dei “dei principi” al secondo piano nobile (Juvarra 1722). Dello stesso autore è il “gabinetto delle lacche cinesi” (1732) all’intersezione tra il torrione sudest e la galleria delle armerie. Negli stessi anni si ebbero numerosi interventi di riallestimento di interni, soprattutto nel torrione nordest (appartamento privato della regina, Benedetto Alfieri ed altri), e si ricostruì la manica nord con realizzazione degli archivi e degli appartamenti degli ospiti (1733-’48). Le ultime ristrutturazioni (Pelagio Palagi e altri, 1837-‘38) furono promosse da Carlo Alberto. Fanno parte del complesso anche: la manica a est della Piazzetta Reale (con la galleria dell’armeria al piano nobile, decorata da Alfieri e Baeumont, e la biblioteca reale a piano terra), la manica che costeggia piazza Castello lato nord (oggi occupata dalla prefettura e originariamente dai ministeri: Castellamonte 1673-‘80, Juvarra 1730), il successivo edificio degli Archivi di Corte (Juvarra 1731) e quelli ancora oltre, dell’accademia militare (Castellamonte 1673-‘80), del Teatro Regio (Alfieri 1761, ricostruito nel 1970 da Carlo Mollino) e della Cavallerizza (impianto generale: Castellamonte; maneggio grande: Alfieri).
In origine il palazzo era unito a Palazzo Madama attraverso un’ulteriore galleria che tramezzava piazza Castello, destinata alle collezioni artistiche (Castellamonte 1605). L’affaccio del cortile d’onore verso piazza Castello era originariamente mediato da un portico terrazzato per l’alloggiamento del corpo di guardia (il Pavaglione).
Palazzo Reale, Scalone d’onore: Concepito da Morello (1640-1656), fu ridipinto in occasione dell’Unità d’Italia.
Palazzo Reale, Salone della guardia svizzera: Affrescato da Gian Francesco e Antonio Fea (1658-1661) con motivi celebrativi dedicati alle origini di Casa Savoia, fu parzialmente rinnovato in epoca Albertina (1842) dal Palagi e con dipinti di Carlo Bellosio.
Palazzo Reale, Sale di parata: L’infilata delle sale verso l’esterno, è composta da: sala delle Guardie del Corpo o delle Dignità (ora “dei Corazzieri”), sale delle Virtù (ora “degli Staffieri”), delle Vittorie (ora “dei Paggi”), del trono del re (già “sala di parata della regina”), di udienza (già “degli enigmi”), del Consiglio di Conferenza (già “camera delle alcove di Madama Reale”). Prima della ristrutturazione Carlo Albertina, erano destinate alle attività di rappresentanza della regina. Conservano i soffitti lignei disegnati da Morello (1660-‘62) e i coevi dipinti opera di Sebastiano Ricci, Claudio Dauphin, Jean Miel e altri. Dell’infilata delle sale verso l’interno non si conserva quasi nulla, perché la prima camera fu poi occupata dalla magnifica scala delle forbici; le due successive furono unite per realizzare la grande sala da ballo (Palagi 1835-‘42); e l’ultima, originariamente destinata al trono del re e poi a quello della regina, conserva solo il soffitto disegnato dal Morello, mentre le decorazioni parietali furono rifatte a fine ‘800.
Palazzo Reale, Sala dell’Alcova: Concepita come camera da letto di Carlo Emanuele II, conserva le decorazioni eseguite su disegno di Morello (1662-‘63). L’alcova è una sorta di palcoscenico ornato da un fastigio ligneo dorato, sorretto da colonne a “cariatide incinta”, scolpito in forma di tendaggi sorretti da angeli e putti.
Convento dei Cappuccini e chiesa di S. Maria del Monte, Vittozzi, 1583/1656. La collina dei Cappuccini fu utilizzata fin dall’antichità per scopi difensivi poiché permetteva di controllare l’accesso orientale alla città. Tommaso I di Savoia aveva qui una propria fortezza, la “Rocca”, che rimase possesso di casa Savoia fino al 1473, quando divenne proprietà privata. Già dal XIII secolo si hanno notizie della presenza di una chiesa. Carlo Emanuele I, nel 1581 acquistò nuovamente i terreni per farne dono ai cappuccini che fino allora avevano avuto sede in un piccolo convento fuori porta, in zona Madonna di Campagna. I lavori di costruzione del complesso religioso iniziarono due anni dopo e durarono quasi un secolo, anche se i cappuccini ne presero possesso già nel 1590.
Il progetto originale del Vittozzi fu portato a termine con alcune variazioni dall’ingegnere Giacomo Soldati, che ne rispettò le caratteristiche fortemente manieriste. Il pittore Isidoro Bianchi di Campione d’Italia realizzò gli affreschi della chiesa negli anni 1630-‘33.
Chiesa di Santa Maria del Monte dei Cappuccini Altar maggiore: Carlo e Amedeo di Castellamonte, 1633.
Palazzo di San Giovanni: sorgeva a nord del duomo e costituiva il quarto lato di piazza San Giovanni.
Palazzo Madama, piazza Castello. Di fondazione romana (sec. I) era il corpo di guardia di una delle quattro porte della città (porta Fibellona): se ne conservano reperti nella sala bassa. Le maniche nord, est, sud e le torri medioevali furono costruite sotto il dominio dei Savoia Acaia, sec. XV, che lo elessero a propria residenza: se ne conservano, oltre alle facciate con finestre bifore e merli ghibellini, le decorazioni delle sale al piano terra, alcuni soffitti a cassettoni, e le tracce del portico che contornava il cortile centrale, ad archi ogivali. La sala bassa e il salone centrale sono dovuti al primo intervento di riplasmazione barocca degli interni, avvenuto sotto la reggenza di Maria Cristiana di Francia (Castellamonte ed altri, 1637). L’avancorpo con lo scalone d’onore e la nuova facciata (Juvarra 1718-‘21) è frutto di un secondo intervento di riplasmazione, voluto da Maria Giovanna Battista di Savoia Nemour. E’ sicuramente l’elemento più importante del palazzo: dal punto di vista urbanistico assegna all’edificio un nuovo valore di rilievo, rendendolo chiaramente distinguibile fin dall’ingresso in città dalla porta di Francia. Presenta notevoli particolari innovativi quali le volte a cupola ribassata e il grande voltone unico di copertura. Segna il passaggio dal periodo della stravaganza barocca, fatta di forti effetti sorpresa ed accentuata ricerca chiaroscurale, a quello della graduale riscoperta dei valori classici, qui citati nella composizione della facciata e della volta superiore. La luce è catturata attraverso pareti quasi completamente finestrate di eccezionale dimensione. Le nuove decorazioni delle sale principali, di vari autori, propongono motivi rococò datati a metà ‘700.
Castello di Mirafiori: corpi principali Carlo di Castellamonte (?) 1602; bombardamento, 1640; progetto di ricostruzione ed ampliamento, Castellamonte 1660. Della dimora sabauda non resta nulla.
Chiesa di S. Francesco da Paola, via Po 16: Andrea Costaguta, 1632-1667; altare maggiore, Castellamonte, 1664-1665.
Palazzo dell’Università, via Po 17: Michelangelo Garove, inizi sec. XVIII; abbellimenti: Juvarra 1715/1726.
Palazzo dell’Ospizio di Carità, anche detto “Palazzo degli Stemmi”, via Po 33: Vari autori, 1692. Sotto i portici, la “Farmacia degli stemmi”, coeva al palazzo, conserva arredi eclettici datati 1850, opera della bottega di Gabriele Capello detto il Moncalvo.
Piazza San Carlo, già detta Piazza Reale: Castellamonte 1638; chiesa di S. Carlo, 1619 (facciata: Ferdinando Ceronesi, 1836); chiesa di S. Cristina, 1639 (facciata: Juvarra, 1715-’18); ristrutturazione portici; monumento a Emanuele Filiberto, Carlo Marochetti, 1838. L’elegantissima piazza prende spunto dalle piazze reali di Parigi. Segue fedelmente l’impianto castellamontiano, ma con alcune variazioni dovute a interventi successivi. In origine, i porticati sui lati lunghi non erano basati su pilastri pieni ma su colonne. Tra gli archi, in luogo degli attuali mascheroni, si aprivano oculi circolari. Esattamente come sui lati corti, che però sono stati ricostruiti “in falso” durante la ristrutturazione di via Roma. La piazza aveva quindi un aspetto molto più ieratico, e i portici erano più luminosi. Il riempimento dello spazio tra le colonne e degli stessi oculi, con conseguente realizzazione degli ornamenti di tamponamento, si deve a un successivo intervento di consolidamento (Benedetto Alfieri, fine sec. XVIII) motivato dal fatto che l’eccessiva profondità delle gallerie porticate stava provocando fenomeni di cedimento strutturale. Le chiese gemelle, nelle intenzioni tardo-manieriste dei Castellamonte, dovevano presentare caratteristiche simili a quelle della chiesa dei Ss. Martiri in via Garibaldi. Juvarra ne interpretò il disegno in spirito barocco, increspando le superfici di facciata e dando un maggior senso dinamico alla composizione.
Castello del Valentino, viale Mattioli 39: Castellamonte, 1620-‘60; decorazioni salone e appartamento “di Moncalieri”, Isidoro, Pompeo e Francesco Bianchi, 1633-‘38; decorazioni appartamento “di Torino”, Alessandro Casella, 1646-‘49; affreschi di Giovanni Paolo e Giovanni Antonio Recchi, 1662; nuove gallerie laterali, 1884; manica sud, ing. Pecco, 1869. L’attuale consistenza del complesso si deve alle ristrutturazioni ottocentesche realizzate per le esposizioni universali. In origine, le maniche laterali erano costituite da porticati a un piano, mentre, verso la città, il cortile si concludeva in una grande esedra sormontata da terrazza.
Max, Nin e la Sindone
Max e Nin si erano conosciuti durante una lezione di “arredamento e architettura d’interni”. In un’aula affollatissima, si dovevano organizzare i gruppi per l’esercitazione che avrebbe occupato tutta la durata del corso.
Si trattava di scegliere un palazzo del centro, analizzarlo in tutti i dettagli, e progettare un locale al pianterreno, arredato fin nei minimi particolari, prevedendo anche le viti delle maniglie e il colore delle eventuali tazzine.
Si erano guardati; si erano “piaciuti”; avevano fatto gruppo.
Nei giorni successivi avevano cominciato a setacciare tutte le case del quadrilatero romano; cortiletto per cortiletto, scala per scala, muffa per muffa e topo per topo. Perché in quegli anni il “quadrilatero” era ben lontano da diventare l’attuale ritrovo per fighetti. Conservava il fascino decrepito di palazzi che sarebbero stati valorizzati anni dopo: la compostezza di palazzo Scaglia di Verrua1, la solennità di palazzo Barolo, la frivolezza cortese di Casa Martin, lo splendore nascosto di palazzo Paesana, la lungimiranza di Palazzo di Città. Ma dappertutto pesava una coltre di degrado pazzesco; si palpava una necessità impellente di intervento. Per svolgere la prima parte di quell’esercitazione in quell’autunno 1985, ci voleva stomaco forte, ed anche un tantino di senso politico della propria missione.
Max e Nin non mancavano di questi ingredienti. Lei era un donnone abituato alle durezze di una famiglia nume rosa di cui era la figlia maggiore, tutta concretezza e spirito di avventura. Carinissima, graziosa, ma completamente diversa da certe sue compagne in minigonna, la cui maturità intellettuale pari a quella di un paramecio, si nascondeva tra curve e sopracciglia. Nin ci teneva a marcare questa differenza.
Max aveva scelto Architettura perché vi vedeva l’occasione per unire la propria viscerale passione espressiva, con un desiderio innato di cambiare il mondo. L’architettura è trasformazione della città, si diceva, e quindi non può prescindere dal proprio portato civile e politico. Pertanto egli girava con un cappottone nero costantemente aperto, dal quale pendeva una lunga sciarpa di lana rossa: una roba tra Fellini e Sartre, adatta al perfetto compagno aspirante intellettuale di sinistra.
Insieme coltivavano un amore smisurato per l’arte ed in particolare per le plasticità barocche. Quell’esperienza di perlustrazione e poi di progetto, li aveva resi una coppia esplosiva.
Tra un cortile e l’altro, tra una nottata e l’altra passate sui disegni, Max e Nin avevano cominciato a confrontarsi sempre più a fondo. A comunicarsi gusti e passioni, desideri e problemi, preoccupazioni e affetti, fino a diventare sempre più simili, perché i sentimenti dell’uno diventavano occasione di crescita per l’altro, e i punti di vista dei due erano sempre più vicini. Ormai condividevano tutto e il contrario di tutto. Salvo il sesso.
Max non avrebbe mai rivelato a Nin il motivo del suo totale disinteresse per lei come donna. Avrebbe dovuto infatti fare prima chiarezza con se stesso; cosa di cui non aveva nessuna voglia. Lei, mica scema, si guardava bene dall’approfondire. E intanto gli presentava periodicamente qualche suo amico gay, un po’ per provocare, e un po’ perché impietosita dalla sua cronica solitudine sentimentale.
Il gioco senza successo di Nin sarebbe durato a lungo, fino a quando, svariati anni dopo, comparve sulla scena Fabry, che lei capì subito essere qualcosa più di un amico per il suo compagno di studi, e non faticò ad accettare come nuovo elemento dell’ormai solido gruppo di lavoro. A una certa distanza però, perché il giocattolo messo in piedi durante il corso di arredamento, poteva funzionare solo mantenendone intatti tutti i meccanismi.
L’esperienza di “architettura d’interni” si ripeté dieci altre volte, perché i due arrivarono a ritoccare i propri piani di studio per poter seguire il più possibile gli stessi corsi, specialmente quelli di progettazione. Il clichè era sempre lo stesso: esplorazione del luogo con attenzione alle problematiche morfologiche, culturali e socio- economiche; abbondante estasi di fronte a qualunque capitello, veduta, rampa di scale un po’ diversa dal solito, madonnina da pianerottolo; poi grandi riflessioni, pausa, materializzazione di schizzi, disegno. Quintali di disegni, eseguiti di notte, perché Max e Nin erano studenti-lavoratori a metà tempo e a quei tempi si disegnava tutto a mano compresi tratteggi paralleli e colorazione a pastello. E poi perché di notte faceva più figo. Si trovavano a disegnare alle sei, dopo la fine delle lezioni. Poi si trasferivano per una leggera cena a casa di uno o dell’altro – compiacenti le mamme – e quindi cominciava la loro serata. Verso le quattro del mattino si guardavano in faccia e realizzavano che non valeva più la pena di andare a dormire. Allora uscivano a tirar tardi in qualche birreria notturna, o sulle panche di pietra lungo il Po. Talvolta prendevano la macchina – perché Nin aveva già la macchina, una Diane grigia – e partivano per fare colazione al Sestriere. Un’ora e mezzo all’andata, mezz’ora di cappuccino, un’ora e mezzo al ritorno. Breve sonnellino in auto, e si salutavano per andare a lavorare: lui a tirar righe da un vecchio ingegnere; lei a disegnare ferri da cemento armato nel piccolo studio di suo padre.
Dormivano poi al pomeriggio, nelle ore di “geotecnica” o di “scienza delle costruzioni”.
Nin si laureò per prima, perché aveva grandi capacità organizzative e sapeva compilare bene le proprie agende: una cosa per volta, ogni cosa a suo tempo. Lui un anno dopo, preso com’era da entusiasmi alternativi in campo politico, umanitario, artistico e intellettuale.
Lei andò a lavorare part-time in un famoso studio di restauro architettonico; lui alternava le righe tirate dai suoi vecchi ingegneri, con qualche incarico personale soprattutto di arte sacra. Insieme si misero a restaurar chiesette, rigorosamente barocche, riuscendo a salvarne dal disfacimento più o meno una all’anno. E intanto si buttavano in esperienze di scambi cultural-lavorativitransfontalieri, naturalmente fallimentari sul piano economico, che però erano l’occasione per ampliare i propri orizzonti, e soprattutto per potersi continuare a misurare con qualcosa di veramente forte.
Erano insieme anche quella notte del 12 aprile 1997, quando andò a fuoco la cappella della Sindone. Erano andati a cena con altri amici in una trattoria di via Bellezia, quando si era sentito un gran calore, e gente per strada che correva e urlava: “brucia la Sindone, brucia la Sindone!”
Si erano precipitati anche loro nella via, spaventati, ed erano corsi con tutti gli altri torinesi ad ammirare senza crederci l’immane disastro, a prender parte dietro le transenne a quell’assurdo incubo collettivo.
C’erano pompieri, divise varie, autorità, e preti e suore e il cardinale paralizzato che balbettava: “salvate la Sindone, salvate la Sindone.” E il fuoco inesorabile, che usciva dai trafori della cupola come un fiume in piena, avvolgendo le arcate, consumando le nervature, trasformando quella che era stata fino a un attimo prima una perfetta macchina mistica di luce, nel più verosimile ritratto del demonio.
“Salvate la Sindone, salvate la Sindone!” continuava il cardinale a pochi passi da loro, e tanti gli facevano eco non sapendo cos’altro dire.
I pompieri ascoltarono il grido popolare. Si precipitarono sul cofano del sacro lenzuolo. Distrussero la teca che lo conteneva e lo estrassero con non poca esaltazione. Lo portarono fuori. Ci fu un boato. Le urla, gli applausi, il fragore delle fiamme, si unirono in una sinistro concerto dodecafonico da mai più dimenticare.
E intanto le magiche geometriemarmoree del Guarini continuavano a implorare attenzione.
“Smettila deficiente!” urlò Nin all’arcivescovo, come se lui avesse orecchie e testa per ascoltarla e per capire.
Lei era forse l’unica sulla piazza, a sapere che quella teca presa a martellate era in realtà indistruttibile. Progettata per resistere al fuoco almeno tre ore, l’aveva disegnata proprio lei, nel famoso studio di restauro in cui lavorava a metà tempo.
Max piangeva.
Aveva amato la cupola incernierata tra il duomo e Palazzo Reale come sua madre. Ci aveva passato i pomeriggi quando, in “quinta geometri”, gli era toccato di riflettere se iscriversi o meno ad Architettura. E proprio da quegli esagoni sovrapposti di occhi luminosi era arrivata la risposta affermativa: “anch’io voglio poter costruire cose come questa.” Ora si sentiva improvvisamente senza radici. Spogliato di un perché.
Toccava fare qualcosa.
Nin organizzò una raccolta fondi con gli amici transfrontalieri, allo scopo di sensibilizzare il pubblico non solo piemontese all’evento. Max scrisse un articolo per un giornale per il quale collaborava:
«Negli archivi torinesi, vari disegni parlano della cappella della Sindone: i primi, del Castellamonte, ipotizzano una pianta ovale con la cupola tonda. Secondo quest’idea, il santuario avrebbe occupato tutta la profondità del lato ovest di Palazzo Reale e si sarebbe aperto direttamente sul duomo. Di altezza modesta, solo il lanternino della cupola sarebbe emerso dai tetti.
Fu Bernardino Quadri a mutare per la prima volta il progetto, elevando il piano della cappella e prevedendo le gallerie d’accesso dagli appartamenti ducali. Ma nemmeno in questo caso l’insieme avrebbe avuto molto slancio.
È curioso che, tra i disegni, non vi siano quelli di Guarini.
Ma è noto che essi girassero l’Europa per essere studiati da giovani artisti. E poi egli disegnava poco, preferendo seguire dal vivo le maestranze che preparavano sagome, centine e modelli per le sue ardite creazioni.
Quando l’architetto modenese arriva a Torino (1665), la parte bassa dell’opera è già in cantiere secondo i vecchi piani: restano da studiare la cupola e i decori. Il nuovo progetto parte quindi da due dati fondamentali: una pianta determinata e un materiale, il marmo di Frabosa, già ordinato in quantità e parzialmente lavorato. Egli accetta i vincoli e organizza il programma di quella che sarà forse la cupola più seducente del mondo. Erige i tre arconi su cui impostare il “tamburo”; costruisce il grande anello coi sei finestroni, il gioco di calotte traforate a nido d’ape, la corona e la cuspide. Ogni dettaglio della struttura esprime esatti significati simbolici, secondo un sistema di allegorie di fine intensità, una sorta di riflessione teologica scritta nella pietra e nella luce: la calotta traforata, il suo slancio prospettico e il progredire dal nero alla luce, rappresentano il transito dalla terra al cielo. Le gradinate curve ricordano la via faticosa dei pellegrini; le stelle sul pavimento alludono al “pianto del cielo” narrato nell’Apocalisse. Tutto in questa sorta di simulacro del santo sepolcro, partecipa ad un simbolico lamento sulla tomba di Cristo.
Credo che nemmeno lo stesso Guarini avesse previsto un effetto così inaudito: le sue opere successive mostrano infatti una ricerca di maggior pacatezza. Ma credo soprattutto che non avesse immaginato d’aver costruito, con le sue cupole geniali – di cui rimane solo la torinese S. Lorenzo – una folla di giganteschi, fatali camini, che sarebbero, prima o poi, andati tutti in rovina.
Ha senso, oggi, chiedersi se si sia trattato d’incendio colposo o doloso, o di calamità naturale o demoniaca? Non so. Ma so bene che, in una cupola a camino – in quella cupola – non si infierisce con lavori che durano quattro anni, lasciando a seccare impalcature in legno che, se mai sono state spalmate con vernice ignifuga, costituiscono comunque un diabolico invito per le fiamme.
Ed è pazzesco, ed altrettanto diabolico, pensare che i lavori di manutenzione in corso fino a pochi giorni fa, erano stati prorogati di alcune settimane per una “variante suppletiva” che avrebbe dovuto permettere la realizzazione (ironia della sorte) dell’impianto antincendio».
Poi la vita ricominciò a trascorrere. I due ora lavoravano ognuno per conto suo, e si rincontravano di tanto in tanto per qualche concorso, o per scambiarsi pacchi di ricordi e di novità, sempre con l’umore tranquillo di chi non è mai stato via più di tre giorni. Nin era più sbilanciata su temi internazionali, Max sulle sue chiesette del Piemonte.
Nin era sempre inesorabilmente single; Max si era per così dire “evoluto”. Dopo la prima necessaria fuga di Fabry (il primo amore non si scorda mai ma sparisce quasi sempre), nelle sue simpatie erano passati Luca, Luigi, Rinaldo, Moreno, Dan e Francesco, più una composita serie di comparse ed amori di un giorno.
E andava bene così. Anche perché – di questo Max andava orgoglioso – sempre di amori si era trattato.
Dopo quindici anni di silenzio, passando un mattino da via XX Settembre, Max si accorse che stavano togliendo gli ultimi ponteggi intorno alla cupola. Si fermò a guardare felice. Pensò che era cosa fatta. Ancora qualche mese e la Città di Torino avrebbe iniziato a strombazzare che la cappella della Sindone era finalmente ricostruita.
Sensazionale.
Nin e Max, per strade diverse, decisero simultaneamente che sarebbero stati tra i primi a visitarla, possibilmente di mattina presto, il primo lunedì disponibile per non doversi trovare accalcati tra la folla.
Nin arrivò in macchina da Chambèry. Max in bicicletta. Nin parcheggiò la Clio gialla che aveva preso il posto della vecchia Diane, in via Santa Chiara, davanti all’Archivio di Stato. Era uno dei luoghi che da giovani avevano più frequentato nelle loro pazze ricerche, e faceva piacere fermarsi lì davanti, anche se era un po’ lontano dal duomo. Meglio ancora: ne avrebbe approfittato per una passeggiata di ripasso.
Passò davanti alla Consolata – che salutò garbatamente
– e prese via Maria Adelaide e poi via Bonelli. Si fermò qualche minuto davanti alla “casa delle piramidi”: quell’edificio dai profili seghettati che per loro era stata, insieme ai suoi autori Gabetti e Isola, la prima pietra miliare nella formazione da architetti. Sbirciò nel portone a fianco, per vedere se fosse ancora aperto quel passaggio che portava nel cortile. Entrò, salì la solita scaletta, rivisse la strana sensazione di trovarsi in uno spazio tanto paesano quanto metafisico: un invaso sopraelevato tra quattro teorie di tetti in coppi disposti a spicchio di piramide, che sorrideva agli abbaini occhiuti delle case vicine.
Ricominciò il percorso di avvicinamento a San Giovanni: piazza vecchia di Porta Palazzo, piazzetta di San Maurizio e Lazzaro – altro angolo di magia, con la chiesa dei cavalieri mauriziani, il palazzo della guardia civica coi tori sulle mensole del balcone, e quello dei domenicani con due analoghi modiglioni a forma di cane (domini canes) – via della Basilica, col campanile del duomo sullo sfondo. Si ricordò della teoria di Max sulla posizione di quel campanile: sosteneva che fosse nato lì, in mezzo alla strada, perché in quel modo la Città avrebbe evitato di fare espropri. Nessuna “volontà barocca ante litteram”.
Arrivò in duomo ed entrò dalla porta laterale sinistra.
Max legò la bici alla nuova cancellata intorno alle Porte Palatine. Disprezzò ritualmente il palazzaccio dei Lavori Pubblici (quell’obbrobrio da dopoguerra costruito senza pietà dopo sei progetti e nove varianti), e si imbucò sul retro del campanile a prendere un caffè nella buvette di Palazzo Reale – il localino tenerissimo ricavato negli “uffici di frutteria” del castello. Dato il solito sguardo compiaciuto ai servizi d’argento e di ceramica sempre in bella mostra nelle antiche vetrine, si preparò per il proprio privato ingresso solenne in San Giovanni.
Entrò dalla porta destra, come suo solito.
Passava sempre da lì, perché gli piaceva sostare davanti alle cappelle laterali più belle: quella della Madonna delle Grazie, seicentesca e completamente dorata; quella “dei Calzolai”, più antica, con la Maria che allatta Gesù; e più avanti la “cappella dell’organo”, col commovente crocifisso di Francesco Borello.
Nin era già più avanti: aveva subito notato che il gran telo in tromp l’oeil che qualcuno aveva messo sul fondo per occultare il disastro della cappella distrutta, non c’era più. Al suo posto era ricomparsa la grande loggia in marmo nero da cui si affacciava la cappella. La vetrata ottocentesca che la chiudeva prima dell’incendio, non era stata ricostruita. La sua funzione di diaframma contro le correnti d’aria era ora assolta da un “muro a vento” invisibile, con bocchettoni perfettamente nascosti dietro le balaustre. Così, la luce della cupola pioveva sul presbiterio del duomo.
Aveva proseguito lungo la navatella settentrionale, e si era fermata un attimo sotto la tribuna regia, a guardare com’era stata sistemata la Sindone. Si era un po’ disgustata di quel grosso catafalco ricoperto da un drappo ricamato in stile suorina, e si era girata per prepararsi alla salita dello scalone che porta alla cappella. Non aveva mai notato prima d’ora, che gli svolazzi che ne ornavano il portale avevano la forma stilizzata di due cariatidi femminili, con tanto di seni, ventre con ombelico, e gonnellino di foglie.
Ricapitolate ancora una volta le forze e le emozioni, aveva cominciato a salire.
Dall’altra parte saliva Max. Da uno scalino all’altro riprovava sensazioni mai del tutto dimenticate. Gli sembrava di scendere anziché salire, perché la forma convessa dei gradini respingeva all’indietro. Ma era solo uno dei mille brividi che gli riaffioravano dentro. Un altro fu quello del rivedere le prime sei stelle d’ottone sul pavimento del vestibolo, nuove purtroppo, ma identiche a quelle originali. Poi l’altare di Bertola, perfettamente restaurato e allestito con tutto il corredo che per fortuna si era salvato dall’incendio. Fu sorpreso dai monumenti funerari di Carlo Alberto e dei suoi antenati Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele II, Amedeo VIII e principe Tommaso, come rimessi a nuovo, non bianchissimi come prima ma miracolosamente salvi.
E finalmente poté alzare gli occhi, timorosamente, verso il cielo.
E vai!
Nei quindici anni di studi e di cantiere, era successo che, dopo un primo breve periodo di sterili dibattiti accademici in cui tutte le archistar del restauro avevano detto la loro, la Soprintendenza ai Monumenti aveva scelto la strada più logica: ripristinare tutto “dov’era com’era”, salvando il possibile ma evitando polemiche su eventuali parti da ricostruire “in falso”: dei cinquemila cinquecento cinquanta cinque conci che costituivano lo spericolato canestro originario, alcuni si erano salvati ed erano stati ripuliti e consolidati. Gli altri erano stati reintegrati, rifacendoli praticamente di bel nuovo con pietre provenienti dalle stessa cave di Franosa, da cui erano strati estratti i marmi di Guarini. E il prevalere del “buon senso”, associato ad anni di studio attentissimo, aveva dato ancora una volta il risultato sicuramente migliore.
Sull’altro versante dell’altare centrale, Nin stava facendo più o meno le stesse considerazioni.
I due cominciarono a girare intorno, lei in senso orario, lui antiorario, di modo che si incontrarono, anzi, scontrarono, davanti alla porta che immette nel corridoio di Palazzo Reale.
Punf!
Stavano entrambi col naso sospeso, e fecero un passo indietro quando si finirono addosso. Sentirono qualcosa di familiare nel corpo della persona con cui si erano scontrati. E infatti, abbassati gli occhi, scoprirono di essere proprio loro.
Si guardarono per nulla stupiti. Entrambi avrebbero scommesso un caffé macchiato sulla possibilità di incontrarsi lì. Anzi, realizzarono che si stavano proprio aspettando l’un l’altro. Si guardarono a lungo. Non dissero niente. Poi sollevarono lentamente le mani destre (Max totalmente stordito), portandole verso la nuca dell’altro, mentre le braccia sinistre si intrecciavano spontaneamente lungo le reciproche schiene.
Fu un abbraccio insolito e stupendo, unico, molto più che fraterno.
Palazzo Scaglia di Verrua, Via Stampatori 4, realizzato dall’abate Filiberto Scaglia di Verrua tra il 1585 ed il 1604, è il primo esempio del Rinascimento a Torino. Notevoli le decorazioni della facciata e del cortile, interamente affidate a cicli di affreschi.
Palazzo Falletti di Barolo: via delle Orfane 7, Francesco Baroncelli, 1692. Alle semplici facciate segnate da marcapiani e dalle cornici delle finestre ornate con putti, si oppone il prorompente portale d’ingresso, seguito dal maestoso atrio con scalone a forbice, che dà accesso al piano nobile e al piccolo giardino posteriore.
Casa Martin, via Santa Chiara 20, Giacomo Plantéry, sec. XVIII. Notevoli l’atrio ed il cortile con i due fronti porticati su due piani.
Palazzo Saluzzo di Paesana, via della Consolata 1bis, Gian Giacomo Plantery, 1715/1722, è stato definito “l’esempio più ampio e complesso di edificio nobiliare settecentesco”. Notevolissima la sequenza “ingresso-atrio-corte”, con le aeree logge sui lati frontali.
Palazzo di Città, via Palazzo di Città 1, Francesco Lanfranchi, 1663. Concepito secondo i dettami tipologici di un palazzo nobiliare (atriocorte-logge), presenta notevoli interni come il salone dei marmi, la “Sala rossa” del Consiglio Comunale, la “Sala del Miracolo”. Nelle decorazioni, propone svariate rielaborazioni dell’emblema della città, il toro, ora in funzione di chiave di volta, ora di mensola per i balconi.
Cappella della Sindone, Guarini 1667-‘94: posta a cerniera tra il duomo e Palazzo Reale, vi si accede attraverso due scaloni prospettanti sulle navate laterali o, dalla parte del palazzo, attraverso la “galleria della Sindone” che occupa il lato ovest dell’edificio. L’idea di una cappella per custodire la più importante reliquia di Casa Savoia, risale ai tempi di Emanuele Filiberto. Un primo oratorio fu eretto sotto Carlo Emanuele I nel 1587 all’interno del “Palazzo di S. Giovanni”. In seguito (1611) lo stesso Carlo Emanuele affida il progetto della nuova cappella al Vitozzi, e avvia il cantiere che sarà seguito dai Castellamonte. Questa prima ipotesi prevede un’aula ellittica dietro l’altare del duomo, sorretta da grandi archi. I lavori sono interrotti nel 1624 per la grave crisi politica. Negli anni ’50 del seicento, Carlo Emanuele II riprende l’impresa incaricandone Bernardino Quadri, che presenta una nuova idea, a pianta circolare, sopraelevata rispetto al duomo e raccordata al piano nobile del Palazzo.
Nel ’65 i lavori sono nuovamente sospesi perché si sospetta che il sistema non sia sufficiente per reggere la cupola. Nel ‘67 il Quadri viene sostituito da Guarini, che concepisce il nuovo progetto, caratterizzato dalla cupola diafana “a canestro”, leggerissima. La soluzione introduce anche la grande balconata di affaccio della cappella sulla navata centrale del duomo.
Santuario della Consolata, piazza della Consolata: sorge sul luogo dell’antica chiesa di S. Andrea, di cui si conserva il campanile romanico (sec. XI). Ricostruita su progetto di Guarini (1678), ampliata nella cappella frontale da Juvarra (1829/1840), fu ulteriormente ampliata dal Ceppi (1899) e ridecorata da Antonio Vandone (1906). La costruzione originaria presentava una semplice navata longitudinale con asse estovest. Guarini la sostituì con un’aula ovale, a metà della quale, sul lato nord, si apre una seconda aula destinata all’altare della Vergine, contornata da deambulatorio. Egli ribaltò così l’asse principale della chiesa. Le crescendi esigenze di culto imposero un’ulteriore ampliamento, realizzato da Juvarra, che progettò un’ulteriore aula lungo l’asse della precedente, traslando l’altare e aumentando l’effetto scenografico. Con l’ultimo ampliamento, Ceppi ricostruì il deambulatorio intorno all’aula esagonale, e lo contornò di profonde cappelle.
“Casa delle Piramidi”, via Sant’Agostino / via Bonelli, Roberto Gabetti, Aimaro Isola, 1978/’84. Edificio estremamente concettuale, è di fatto la sopraelevazione di un basso fabbricato preesistente costruito dopo i bombardamenti del ’42. Si sviluppa a partire dall’idea di una piramide scomposta, i cui quarti sono ribaltati verso l’esterno, in modo da generare una corte cruciforme molto soleggiata. Lo schema geometrico è sdrammatizzato dall’adozione di balconi protetti da pensiline di sapore vernacolare, con copertura in coppi, poggianti su semplici tubi quasi da cantiere.
Piazzetta dei Ss. Maurizio e Lazzaro: slargo romboidale corrispondente a via Milano 20. Il disegno si deve a F. Juvarra (1722) e fa parte della sistemazione urbana che comprende anche la piazza di Porta Palazzo.
Basilica dei Ss. Maurizio e Lazzaro, via Milano 20, Morello, Bettino, 1679. La facciata è completata in chiave neoclassica da Carlo Bernardo Mosca, 1834.
Campanile del duomo di San Giovanni: voluto dal vescovo Giovanni di Compeys, risale al 1469. La cella campanaria si deve a Filippo Juvarra (1720), ed è incompleta nella parte superiore.
Duomo di San Giovanni, piazza S. Giovanni, Meo del Caprino, 1490/1505. E’ l’unica chiesa rinascimentale della città.
Palazzo dei Lavori Pubblici, piazza S. Giovanni 5, Mario Passanti e Paolo Perona, 1956. Sorge sul luogo di un antico palazzo castellamontiano a portici.
Duomo: Cappella della Madonna delle grazie: conserva la statua della “Madonna Grande” (1460), proveniente dalla demolita chiesa di “S. Maria de Dompno” che sorgeva sull’area dell’attuale duomo.
Duomo: altare di Ss. Crispino e Crispiniano (1494/1508), conserva un polittico di Defendente Ferrari, e una serie di piccole tavole di Martino Spanzotti illustranti la vita dei santi.
Duomo: cappella del Crocifisso: (fratelli Collino, anni ’20 del XVIII secolo), fu ristrutturata da Luigi Michele Barberis nel 1787. Contiene, oltre al crocifisso ligneo di Francesco Borrello, le statue di S. Cristina e S. Teresa, del Le Gross.
Duomo: tribuna regia: disegnata da Francesco Martinez e scolpita da Ignazio Perucca (1777), fu voluta da Vittorio Amedeo III. Vi si accede direttamente da Palazzo Reale.
Duomo: altare della Sindone: opera di Antonio Bertola. Ospitò la reliquia a partire dal 1694.
Quaranta chilometri di bicicletta
Voglio raccontare un giro in bici che feci in un pomeriggio d’estate: quaranta chilometri su pista, che toccano i più bei parchi di Torino.
Si comincia naturalmente dalla cascina Roccafranca, a Mirafiori, dietro casa mia, dove, chi è sprovvisto, può prendere a prestito una bicicletta della Circoscrizione.
Possibilmente si va, come ho fatto io, in compagnia di un amico milanese: tanto per stupirlo con gusto un po’ sadico, di quanto la nostra città sia più bella della sua, anche nelle più remote periferie.
Si scende lungo la rinnovatissima via Gaidano, si gira a destra in corso Orbassano e si raggiungono i filari un po’ metafisici del parco lineare di corso Tazzoli (quello disegnato dal mio amico Faby ai tempi del programma Urban2 che ha risvoltato Mirafiori come un calzino). Si saluta con riverenza il “cancello 2” della Fiat, epica memoria delle lotte operaie. Si lancia uno sguardo anche alle prime case operaie: quelle municipali denominate M2, con affaccio sul corso, e quelle piccole, a villetta, della “cooperativa lavoratori”.
In piazza Caio Mario, si costeggia la bruttissima “palazzina” degli uffici Fiat, costruita in epoca fascista insieme a tutto lo stabilimento, inaugurato dallo stesso Mussolini. Il quale però se ne andò con la coda tra le gambe, perché i torinesi, temerari, non lo avevano applaudito.
Si gira a destra per raggiungere corso Traiano, che si percorre fino in fondo, ad incontrare la rotonda di corso Unità d’Italia. Qui, se si ha del fegato, si può subito attraversare lo stradone e buttarsi sul lungo Po. Ma è meglio proseguire sul lato sinistro, costeggiando i Palazzi “del lavoro” e “vela” ed il laghetto di Italia ’617. Si passerà sull’altro lato utilizzando la nuova passerella pedonale. È un bel vedere.
Il tratto di lungo fiume fino al ponte Isabella, è di una bellezza strepitosa: uno stradino riparato da un’alta scarpata verde, in alcuni tratti si spinge così in riva da lambire quasi l’acqua. Merita un’occhiata l’“idrovolante” parcheggiato a un certo punto lungo il bordo del fiume, un tempo meta gastronomica di giovani che oggi passano i sessanta. L’amico milanese comincerà a non capire più niente: siamo in città o dove?
Poi c’è il Valentino, con la fontana dei dodici mesi, il Palazzo Esposizioni, il borgo medioevale (rallentare se si vuole passare da dentro), il Castello di Madama Cristina e i vari imbarchi. Si può girare in tondo ad ognuno di questi monumenti, per aggiungere per esempio che la fontana, mirabolante esercizio dimostrativo delle virtù del cemento armato, è lì dai tempi del Ceppi e fu inaugurata nel 1898, mentre il “Borgo” con il suo aspetto da set cinematografico in costume, risale all’esposizione universale del 1884. Le gallerie laterali del Castello furono costruite per l’esposizione ancora precedente, nel 1854, mentre tutto il resto dei giardini è frutto di disegni dell’architetto Jean-Pierre Barillet-Deschamps, prodotti nella seconda metà dell’ottocento, salvo il roseto realizzato per la mostra floreale Flor61 e poi ampliato per Flor92. Ai milanesi piacciono tanto le date. Non esagerate però: il Valentino va vissuto come luogo di “loisir”, godendone colori e profumi nella più totale inconsapevolezza. Non è un laboratorio per lezioni di architettura.
Poi i Murazzi. Se non è ora di movida, essi si presentano in tutta la loro maestosa solitudine neoclassica. Consiglio di raggiungerli scendendo a rotta di collo lungo la rampa principale, dimenticando l’istituzione dei freni. È un’esperienza catartica, che permetterà all’amico meneghino di non pedalare quasi fino a piazza Vittorio.
Dicono che sia la piazza più grande d’Europa dopo Place de la Concorde, ma si tratta di una di quelle sparate che si fanno per puro campanilismo. Chi sostiene questa ipotesi infatti, commette due grosse semplificazioni: la prima è quella per cui piazza San Pietro, essendo praticamente in Vaticano, non fa parte del territorio della Comunità Europea (quell’extracomunitario del papa!). La seconda prevede che se ne calcoli l’estensione a partire dall’esedra di via Po fino alla scalinata della Gran Madre, il che non è del tutto onesto. La nostra spianata ottocentesca (Giuseppe Frizzi 1825) non ha bisogno di questi primati. Piuttosto può essere simpatico ricordare che ciò che vediamo realizzato, non è che un terzo della smisurata distesa prevista nei progetti del 1817 da parte degli ingegneri Melano e Lombardi, che avevano ipotizzato rispettivamente un gran rettangolo completamente contornato da palazzi (anche sul lato verso il Po), oppure un insieme più scenografico in cui il fronte verso il fiume fosse aperto nella sua parte centrale. Ma sono aneddoti che si possono anche omettere: per misurare la bellezza di piazza Vittorio, è sufficiente citare la battuta di una nostra grande storica dell’arte, Andreina Griseri, la quale ne parlava dicendo che “vi spira la luce di Boullée”.
Attraversiamo ora il ponte napoleonico ed imbocchiamo la pista che costeggia Parco Michelotti. Credo che l’ingegnere di Bonaparte, Claude-Joseph La Ramée de Pertinchamp, quando nel 1810 disegnò il nostro “ponte di pietra” nell’intento di magnificare le potenti sorti del nuovo impero, non avrebbe mai sospettato che un giorno esso diventasse terreno per scampagnate in bicicletta. Né lo avrebbe mai immaginato l’altro severo architetto del primo ottocento torinese, Ferdinando Bonsignore, che si propose di umiliare i francesi sbarazzati dal Congresso di Vienna, costruendo un monumento ancora più possente attraverso il “pantheon” della Gran Madre, che porta sul fregio del timpano una sinistra scritta che speriamo non profetica: “Ordo Popvlvsqve Tavrinvs ob Adventvm Regis” (La nobiltà e il popolo di Torino per il ritorno del re). Oggi Torino non è più terra per re e comandanti vari.
Oltre il vecchio zoo che si estende a nord del ponte di pietra, c’è poi una stradina bianca che passa dietro le case antiche di corso Casale, in un paesaggio straniante che sa di lavandaie e fiori di zucca. Porta alla nuova passerella dedicata a Fausto Coppi, vicino all’edificio liberty del “Motovelodromo”.
Scavalcato di nuovo il fiume, si prende il placido lungo Po Antonelli, da percorrere fino alla congiuntura della Dora. Si entra nel parco della Colletta attraverso un ponte pedonale.
La Colletta è quel posto dove il Po comincia a sapere di Po: largo, obeso d’acqua, abitato da aironi che prendono il posto dei gabbiani di città, stitica specie animale quest’ultima, derivata dalla migrazione dei ben più imponenti gabbiani di mare. I gabbiani di mare sanno di libertà; i nostri, di reclusione.
Un viale alberato costeggia il parco fino alla confluenza della Stura; poi prosegue circoscrivendo i prati. Mi dicono che da quelle parti, di sera, ci sia un fiorente battuage per gay di ogni età. Siccome non lontano c’è il cimitero generale, lo chiamano “battuage dei lumini”. E andare in cerca di avventure erotiche “omo”, a Torino, si dice “andare ai lumini”. Eviterei quindi di arrivarci dopo il tramonto.
Molto meglio capitarci verso mezzogiorno, soprattutto se è domenica, magari armati di frittata e prosciutto in gelatina, che potremo scambiare fraternamente con qualche cotoletta di capra arrostita dalle numerose famigliole rumene che popolano l’area barbecue nei giorni festivi. Per il nostro compagno di pedali sarà una sosta istruttiva: i milanesi hanno molto bisogno di imparare dai rumeni l’arte di rosolar le capre.
Circumnavigata la Colletta, torneremo alla passerella di prima, dove c’è una vecchina molto simpatica che vende angurie e altra frutta, e va proprio bene per completare il pranzo evitando integratori e stupide robe chimiche. Ciò fatto, ci immetteremo sul lungo Dora Voghera. La Dora è femmina. Al contrario del suo paziente marito, si produce in gorgogli da primadonna anche quando non c’è molta acqua. Per questo, nell’ottocento fu imbrigliata tra due muraglioni in mattoni, belli da vedere, con su una terrazza che ci accompagnerà fin oltre il Balon, dove attraverseremo l’ex arsenale che oggi ospita l’ “Arsenale della Pace” col “Cortile del Maglio”, e la nuova Passerella Carpanini, costruita dopo l’inondazione del 2000. Il panorama non è sfolgorante come sul lungo Po, ma è interessante comparare le sponde “floride” precedenti, tutte giardini e colline, con il corso del tutto “urbano” della Dora, dove si passa tra alberature regolari e balaustre in pietra di Luserna.
Si raccomanda di buttare l’occhio al “Ponte Mosca”, in corso Giulio Cesare, a due passi da Porta Palazzo.
Racconteremo al nostro amico un aneddoto saporito, di quando le malelingue, che non credevano fosse possibile un’arcata così bassa e slanciata, suggerirono all’ingegner Mosca una scommessa ardita: era il 1830 e l’opera, durata sette anni, era ultimata. Lui, mentre gli operai disarmavano la struttura, si fece portare una tavola imbandita sotto l’arcata, e vi pranzò con tutta la famiglia.
Quanto alla passerella del Balon, sarà occasione per raccontare un altro aneddoto, dimostrando al nostro ospite, che Torino, a differenza di altre città, ha anche conosciuto amministratori “con le palle”. La passerella fu infatti dedicata al vicesindaco Carpanini, perché egli fu il principale autore del salvataggio del quartiere durante l’alluvione. Arrivato sul posto, con l’acqua che cominciava a salire alla grande, gli venne in mente che una soluzione d’emergenza poteva essere quella di scoperchiare i tombini. I suoi tecnici cominciarono a rispondergli che non era loro competenza; che era competenza “di Amiat”, competenza “di Smat” (i tecnici comunali parlano così, personalizzando i nomi di aziende ed enti burocratici), competenza di chissà quante altre “municipalizzate”. Il vicesindaco, grande e grosso com’era, rispose: “mia competenza è salvare il Balon”, e divelse la prima caditoia. Gli altri lo seguirono, e i danni furono contenuti. Carpanini, poi candidato sindaco nel 2006, morì nella campagna elettorale, durante un “contraddittorio” televisivo. Era un uomo passionario.
Ripreso il Lungo Dora, arriveremo fino a corso Principe Oddone, dove ci si immette in qualche modo nel nuovo parco di “Spina tre”. Raggiungeremo la stazione ferroviaria e ci lanceremo su corso Mortara. Si riprenderà il lungo fiume all’altezza di via Livorno. Vale la pena perché, in questo tratto, la pista si snoda in un paesaggio naturale quasi incontaminato, e prosegue con questo stile fino corso Svizzera. Poi si insinua dietro certe vecchie case e ci accompagna al parco della Pellerina.
Sosta d’obbligo alla Cascina Marchesa, tra i gelsi ed i laghetti popolati di cigni, papere e tartarughe.
Mi dicono che anche da queste parti ci si ritrova per casuali incontri piccanti, gratuiti e non. Eviterei la prova.
Si può invece provare qualche altra cotoletta arrostita, questa volta a cura della comunità dei Peruviani, i quali gestiscono l’area barbecue per conto del Comune, con tanto di contratto.
La dinoccolata passerella che scavalca corso Appio Claudio, ci permetterà poi di raggiungere corso Montecucco.
Lo percorreremo tutto, fino al parco Ruffini. Qui non dimentichiamo di ricordare al nostro amico, che le collinette del parco furono realizzate sopra cumuli di immondizia, essendo quella, la prima storica discarica della città. Anche a Torino, “dal letame nascono i fior”.
Da lì raggiungeremo via Arbe e torneremo a Mirafiori.
Passeremo alla Cascina Giaione, strepitoso esempio di architettura rurale del settecento, ora convertita in centro civico della Circoscrizione 2. Raggiungeremo poi l’immenso corso Salvemini con otto filari di alberi, e poi la pista lungo la centrale AEM, che ci riporterà alla Roccafranca. Dove il vostro amico sarà entusiasta di poter cenare con voi all’ombra di una coppia di gelsi del diciassettesimo secolo.
Se non era già il vostro fidanzato, vorrà diventarlo al più presto – a prescindere da questioni di genere e orientamento, perché a Milano sono mille volte avanti in queste cose.
E una volta che avrete il fidanzato milanese… saranno tutti fatti vostri.
Cascina Roccafranca, via Rubino 45, edificio rurale del XVII secolo, ristrutturato nel 2006, ospita la “Casa del Quotidiano”, centro culturale e ricreativo in cui vivere attivamente il quartiere.
Complesso M2, corso Agnelli 160, via De Bernardi 2, IACP 1927.
Case della “Cooperativa Addetti Fiat”, corso Agnelli 137/147, Luigi Nebiolo, 1926-27.
Palazzina Fiat, corso Agnelli 200, Vittorio Bonadè Bottino, 1939.
Palazzo del Lavoro, via Ventimiglia 211, Pierluigi Nervi, 1961.
Palazzo Vela, via Ventimiglia 145, Annibale Rigotti, 1961, innovato su progetto di Gae Aulenti e Arnaldo De Bernardi, 2001. Notevole la volta in cemento armato, poggiante a terra in soli tre punti.
Giardini di Italia ’61, viale Unità d’Italia, vari autori, 1961.
Ponte Isabella, corso Dante, costruito dal Civico Uffizio d’Arte su progetto dell’ingegnere Ernesto Ghiotti, 1880.
Fontana dei Dodici Mesi, parco del Valentino, viale Boiardo / viale d’Italia, Carlo Ceppi, 1898.
Palazzo Esposizioni, corso Massimo d’Azeglio 15, Pierluigi Nervi, 1947-50.
“Borgo Medioevale”, Parco del Valentino, viale Vigilio 105, Alfredo
d’Andrade, 1884.
Murazzi del Po: Carlo Bernardo Mosca, 1830-1833; Tommaso Prinetti, 1873.
Piazza Vittorio Veneto: l’esedra verso via Po risale al XVII secolo, Castellamonte, 1674; la piazza è di Giuseppe Frizzi, 1825.
Ponte napoleonico: sostituisce un precedente ponte in legno e pietra. Claude-Joseph La Ramée de Pertinchamp, 1810.
Chiesa della Gran Madre di Dio, piazza Gran Madre di Dio 4, Ferdinando Bonsignore, 1827-1831.
Monumento a Coppi, corso Casale / piazza Francesco Carrara.
Motovelodromo Fausto Coppi, corso Casale 160, Vittorio Eugenio Ballatore di Rosana, 1918-1920.
Ex arsenale militare, via Borgo Dora 49, Antonio Rubatti, 1673; rifacimento ottocentesco: Antonio Quaglia, 1852; ampliamento: Giuseppe Castellazzi, fine XIX sec..
Passerella Carpanini, via Borgo Dora / corso Vercelli (Giorgio De Ferrari, Francesco Ossola, 2006) Sostituisce il vecchio ponte Principessa Clotilde, danneggiato dall’alluvione del 2000.
Ponte Mosca, corso Giulio Cesare 14, C. Mosca, 1823-1830.
Cascina Giaione, via Guido Reni 96, ex edificio rurale del XVIII secolo, ora sede del centro civico della Circoscrizione 2.
Recensioni
Ancora non ci sono recensioni.