Anteprima
Wie Morgenwolken
Auf jenen Höhn!
Come le nuvole del mattino
su quell’altura!
Johann Wolfgang Goethe
Maifest, Frühsommer 1771
NELLA BRUGHIERA DI LÜNEBURG
I
LA SANTA
— Siete pronta, donna Assunta? Sta arrivando zùCiccio con la moto Ape.
— Arrivo, arrivo, Damiana. Mi metto le calze e vegnu.
— Le calze con questo caldo?— pensò la ragazza.
Donna Assunta sollevò il corpo pesante dall’inginocchiatoio aiutandosi con uno sforzo delle braccia. La stanza, al pianterreno della casetta, era in penombra, illuminata solo dalla fiammella di un cero acceso davanti l’altarino sul comò e da qualche raggio di luce che s’insinuava attraverso le fessure degli scuri.
La vedova alzò gli occhi verso la grande fotografia del marito in divisa militare, che, nella sua cornice d’ebano, la guardava severo dall’alto, in mezzo a madonne, sacrocuori di Gesù e sbiadite fotografie di tutto il parentado passato a miglior vita.
— Se ci fossi ancora tu, tutto questo non sarebbe successo. Non sarebbe successo, Pasquale…
Nello sguardo del marito le parve di cogliere un rimprovero:
— Non è certo colpa mia, Assunta!
— Ù saccio, ù saccio, di chi è la colpa. Ma questa è una punizione troppo dura — gli rispose mentalmente la donna.
Poi si rivolse alla Vergine:
— Aiutatemi Voi, Madre Addolorata.
Si stava facendo tardi: donna Assunta si sedette sul letto e s’infilò a fatica un paio di gambaletti neri. Poi s’aggiustò lo scialle sulla testa e uscì in cortile. Damiana la aspettava fuori, seduta sulla panchina all’ombra del grande albero di carrube.
— Fa un caldo da morire. Sciuscia scirocco da stanotte — disse la ragazza.
Donna Assunta si chiuse la porta alle spalle; il suo sguardo passò meccanicamente in rassegna le piante che, in un numero imprecisato di vasi e vasetti in coccio, vecchie terrine e barattoli di latta, quasi ostruivano l’ingresso.
— Devo potare un po’ i gerani— pensò. — E zùCiccio? Dov’è?
— È fuori in strada. Andiamo, donna Assunta. Meglio non far aspettare la Santa.
Attraversarono il piccolo cortile e aprirono il cancelletto. Parcheggiato accanto al marciapiede sostava l’Ape di zùCiccio. Vedendo arrivare le due donne, l’uomo uscì dall’abitacolo e si tolse con deferenza la coppola:
— Baciamo le mani, signore belle.
Dal furgone scoperto prese uno sgabello di legno a due piani, lo pose a terra e invitò donna Assunta a salire sul pianale. Lei lo fece con molta precauzione, reggendosi con una mano alla spalla dell’uomo. Poi si girò e si lasciò cadere pesantemente su una bassa panca, con la schiena appoggiata alla cabina. Il veicolo sobbalzò sotto il colpo. Anche Damiana salì e si sedette sul bordo del pianale, con le gambe che penzolavano di fuori.
— Attenta alle curve, donna Assunta — si raccomandò il conducente prima di entrare nell’abitacolo.
— Tenetevi ben stretta alle sponde.
— Vi volto le spalle, donna Assunta — si scusò la ragazza.
L’Ape procedeva lentamente, rombando per le strade semideserte del paese. Qualche passante si voltò meravigliato a guardare la scena: sembrava la processione di una madonna addolorata, con la Maddalena seduta ai suoi piedi. Appena fuori dall’abitato il veicolo imboccò una stradina tortuosa, fiancheggiata da muretti in pietra, che risaliva il fianco della collina. Ora andava quasi a passo d’uomo. Ciò nonostante donna Assunta scivolava sulla panca a ogni curva, una volta di qua e una di là, mentre lei era tutta concentrata a tenersi con entrambe le mani ben salda alle sponde. Damiana le descriveva il panorama:
— Talìte, donna Assunta. Da qui si può vedere Favignana. Guardate com’è verde il mare… Oh, quanti mandorli in fiore! Matre mia, che beddi!
Lasciata la strada, l’Ape si addentrò sobbalzando lungo un sentiero tra gli ulivi, fino a fermarsi nel cortile di una masseria isolata. Sulle pale dei fichi d’India della siepe tutt’intorno già spuntavano i primi boccioli dei bei fiori dorati, ormai impazienti di aprirsi al sole. Sotto un pergolato d’edera sostavano due muli. Dall’ombra dell’atrio venne loro incontro una donna anziana, vestita di nero.
— Buon giorno, donna Assunta. Como sì bedda, Damiana, co’ ‘sti capiddi biunni!Dovrete pazientare n’anticchia. La Santa sta parlando col fattore del signor barone.
È venuto per sapere come sarà il raccolto del grano quest’anno.
Poi, all’orecchio di donna Assunta:
— Ma credo che vi sia dell’altro. C’è anche il signorino. Quant’è beddu ’stu figghiu!
La sua voce divenne un sibilo:
— In paese dicono che ha una storia con una gran signora di Palermo. Forse vuol sapere dalla Santa se puru u maritu ù sapi — rise maliziosamente la vecchia, mostrando i pochi denti che aveva in bocca. — Ma naturalmente iò nenti saccio e anche se lo sapessi non ne parlerei di certo.
Donna Assunta non ribatté a quell’impudente falsità.
Tutti sapevano quanto fosse curiosa e chiacchierona zàNunzia, ma non le importava quello che lei avrebbe raccontato in giro. Tanto, in paese anche i picciriddiavrebbero imparato presto le ragioni della sua visita alla Santa.
— Potete pazientare un po’? — chiese donna Assunta rivolta a zù Ciccio.
— Sissignora. Per vossiaquesto e altro. E per don Carmelo, naturalmente. Si potrebbe avere un bicchiere di limonata, zà Nunzia? — chiese poi.
— Vado a prenderla subito e se l’hanno già bevuta tutta, ve ne preparo dell’altra.
Dopo pochi minuti la donna ritornò con la caraffa e i bicchieri.
— Non l’hanno neanche toccata. Ma si sa, i signori sono abituati a cose più raffinate… al vermut, al rosolio.
Donna Assunta rifiutò il bicchiere che zà Nunzia le porgeva:
— Non per me, grazie. Ho lo stomaco già abbastanza acido.
Di lì a poco i due uomini uscirono dalla casa. Si tolsero il cappello alla vista delle nuove arrivate e accennarono un inchino con il capo in segno di saluto. Prima di raggiungere i muli, si avvicinarono a zàNunzia e le misero qualcosa tra le mani, che la vecchia finse di rifiutare.
— Avrà anche una storia con una gran dama di Palermo, — disse donna Assunta a Damiana appena i due furono abbastanza lontani — ma intanto ‘sto fetuso ti ha guardata con due occhi da lupo affamato!
Precedute da zà Nunzia, donna Assunta e Damiana entrarono in casa. Nella penombra della grande cucina, in un angolo di fianco al focolare, videro la Santa prostrata ai piedi di una statua in gesso della madonna di Lourdes a grandezza quasi naturale, con tanto di aureola di piccole lampadine accese. Sul pavimento, intorno alla donna, brillavano le fiammelle di molte candele. Le pareti della stanza erano quasi completamente tappezzate di immagini sacre e di quadretti ex voto.
Senza voltarsi né alzare il capo, la Santa invitò le due donne con un gesto della mano a inginocchiarsi a terra accanto a lei. Donna Assunta lo fece con grande fatica, aiutata da Damiana:
— Preghiamo insieme la Madonna, perché mi conceda la grazia di trovare la risposta al problema che vi ha portato qui.
— Ave Maria, gratia plena…
Recitarono insieme la preghiera per tre volte, a voce alta. Poi la Santa si fece il segno della croce e si alzò.
Era una donna alta e magra; la sua veste nera, lunga fino ai piedi, metteva in risalto il pallore ieratico del viso, senza però riuscire a nascondere le forme del corpo ancora sode e procaci, benché i suoi capelli, raccolti a crocchia dietro la nuca, fossero ormai in gran parte grigi.
— Fa di tutto per sembrare più vecchia, — pensò Damiana — ma gli uomini per strada si volterebbero ancora come allocchi, se solo scendesse in paese.
La Santa fissò le due donne, quasi meravigliata di vederle lì, con uno sguardo che sembrava provenire da lontane, oscure profondità, ma la sua voce suonò presente e cordiale:
— Sedete, donna Assunta, che chissà da quante ore siete in piedi. Vieni anche tu, Damiana. Ditemi ora, cosa chiedete alla Madonna?
— È per mio figlio Nicola…
La voce di donna Assunta si spezzò per l’angoscia e la donna cominciò a piangere silenziosamente, coprendosi la faccia con le mani.
— È scomparso da cinque giorni — continuò in sua vece Damiana. — Senza dire niente a nessuno, senza lasciare neanche un pizzinu. E da allora non abbiamo più sue notizie.
Donna Assunta si fece forza per parlare:
— Ho informato subito mio cognato Carmelo. Ho telefonato a un paio di compagni d’università di Nicola a Palermo e sono anche andata dai carabinieri.
— E don Carmelo cosa vi ha detto?
— Puru iddu nenti sapi. Niente di niente: parlerà con certi suoi amici e poi mi farà sapere. Se Nicola è in Sicilia, lo troveranno.
— Può esserci di mezzo un’altra donna? Avete litigato? — chiese la Santa, rivolta a Damiana.
— No, gesùmaria, no. Nicola mi vuole bene. Se ci fosse stata un’altra donna, sono sicura che lo avrei capito. E poi, se fosse questa la ragione, lui si sarebbe già fatto vivo, almeno con sua madre.
La Santa tornò a inginocchiarsi sul pavimento ai piedi della Madonna, con le braccia aperte rivolte all’indietro e il capo chino sul petto.
— Sembra un cigno, in quella posizione. Un grande cigno nero che sta morendo — pensò Damiana, che non era priva di una certa immaginazione.
La veggente restò per alcuni minuti in silenzio, poi il suo corpo ebbe un sussulto e lei parlò, con una voce che le due donne non conoscevano:
— Vostro figlio Nicola è un’ animella.
— È questo che vi dice la Madonna? — esclamò esterrefatta donna Assunta, mentre Damiana le faceva cenno di tacere.
La veggente sembrò non aver sentito la domanda e continuò:
— Vostro figlio è un’ animella ed è puru babbo.
Fu Damiana allora a sbottare:
— Nicola non è un babbeo; è un ragazzo intelligente e sensibile.
La Santa stavolta parve aver sentito, perché chiese:
— Ti tuccau mai ì minni?
Donna Assunta si voltò di scatto verso Damiana, che rispose arrossendo:
— E quando mai, bedda matre, se non eravamo mai soli, se uscivamo sempre accompagnati da qualcuno?
— Non mentire alla Madonna! A voglia che siete rimasti da soli! — ribatté con voce severa la veggente, e poi ripeté:
— Ti tuccau i minni?
— No, non me li ha mai toccati, i seni.
— U’ vidistu? Nicola è animella e puru babbo — fu il giudizio definitivo della veggente.
— Ma con questo cosa volete significare, Santa mia? — chiese donna Assunta un po’ spazientita.
— Io l’ho tirato su rispettoso, ò figgiu meo — soggiunse subito dopo.
— Voglio dire che iddo nun è n’ommo, è como nu picciriddu e si lascia traviare facilmente. E forse c’è gente mala che ve l’ha portato via. Cattive compagnie ne aveva?
— No, che io sappia. Ma sa domeneddio che i figli neanche una madre riesce mai a conoscerli fino in fondo.
— No, non ne aveva — confermò Damiana. — Se fosse insieme a gente mala, don Carmelo lo avrebbe già trovato.
— Già! — commentò laconicamente la Santa che, per quanto vivesse al di fuori del mondo, evitava prudentemente di mettere il naso in faccende che riguardassero da vicino uomini d’onore.
— Ma dove è adesso mio figlio? Non ve l’ha detto, la Madonna?
— No, non riesco a vedere niente, né lui né altri. C’è una specie di nebbia viola che mi impedisce la vista. Sì, è come una distesa rosa-violetto. Forse è un mare al tramonto… o magari un mantello… o un tendaggio, non si capisce. Ma al di là di questa cortina c’è lui, lo sento.
— Ed è vivo? — chiesero le due donne all’unisono.
— Sì, è ancora vivo. Ma oltre a questo non so dirvi.
La Santa si alzò. I suoi occhi neri sembravano adesso ancora più cupi. Donna Assunta stava per chinarsi a baciarle una mano, ma la veggente la trattenne e accomiatò in fretta le due ospiti:
— Andate ora, che aspetto altra gente. Se sognerò di Nicola o avrò visioni, ve lo farò sapere.
Nell’atrio c’era zà Nunzia in attesa. Di certo non le era sfuggita una sola parola del loro discorso. Mentre rifiutava il denaro che donna Assunta le offriva, protestando che la Santa non accettava mai piccioli, ma solo preghiere e opere di bene, la vecchia allungava già la mano per afferrare le banconote.
— Serviranno per i poveri, se insistete.
Durante tutto il viaggio di ritorno le due donne se ne stettero in silenzio, assorte nei loro pensieri. Nei loro cuori si alternavano speranza e delusione, sollievo e disperazione come luce e ombra in certe giornate ventose di primavera, quando le nuvole in cielo sembrano cavalli bianchi in corsa davanti al sole.
— L’importante è che sia vivo. Sì, è solo questo che conta. È vivo.
— Perché non si fa sentire? Perché? Come può lasciarmisoffrire così? Eppure lo sa che per me lui è tutto.
Damiana si chiedeva se la sua menzogna di poco prima fosse un peccato da dover confessare in chiesa a don Giuseppe. Aveva davvero mentito alla Madonna? Ma, Madonna o non Madonna, la Santa non aveva diritto di chiederle quelle cose in presenza di donna Assunta.
Certo! Lei e Nicola erano rimasti spesso da soli: erano amici da sempre. Le loro case erano situate nella stessa strada, a pochi metri di distanza l’una dall’altra. Erano cresciuti insieme. Sotto il vecchio carrubo, nel cortile di casa Spada, avevano giocato fin da quando erano due mocciosi: di giocattoli per i bambini ce n’erano ben pochi, nella poverissima Sicilia del primo dopoguerra, ma loro supplivano a quella mancanza con tanta fantasia.
Più grandicelli, sotto quell’albero, si erano scambiati una solenne promessa di matrimonio. Damiana aveva nove anni e Nicola uno di più.
Quando Damiana si era fatta donna, i suoi genitori le avevano concesso meno libertà. Ma entrambi erano fuori casa per gran parte del giorno, perché andavano a lavorare l’appezzamento di terreno di famiglia, qualche chilometro fuori dal paese, e non era poi così difficile eludere la sorveglianza della nonna e raggiungere Nicola. Oppure era lui a venire da lei, scavalcando un paio di muretti divisori tra i cortili dietro le abitazioni; la nonna, seduta sulla soglia di casa a sgranare piselli e fagioli e a chiacchierare con qualche vicina, non si era mai accorta che lui entrava da una finestra sul retro direttamente nella camera dell’amica.
Quando Nicola, a sedici anni, l’aveva baciata per la prima volta con la lingua, lei aveva risposto con trasporto. Poi lui aveva incominciato a toccarle il seno, e lei lo aveva lasciato fare. La loro intimità era cresciuta con il tempo: Damiana si fidava completamente di lui. Una volta lei stessa si era sbottonata la camicetta e gli aveva mostrato le piccole mammelle nude: le era piaciuto sentire le dita e la lingua di Nicola giocare delicatamente con i suoi capezzoli. Le era sceso un gran caldo per tutto il corpo, mentre Nicola, ricurvo su di lei, la andava accarezzando con la mano fin giù all’umido tra le sue gambe.
Più avanti, per calmare l’ardore crescente dell’amato e insieme la sua voglia di essere penetrata, aveva imparato a masturbarlo e a lasciare che lui facesse altrettanto con lei. Placata la grande sete, lei gli posava la testa sul petto e scoppiavano entrambi in una risata liberatoria.
Non c’era nulla di sporco, in quei giochi, anzi era bello farli, con lui che era l’uomo al quale si era promessa… ma quanti pateravegloria aveva dovuto recitare, dopo che don Giuseppe le aveva dato l’assoluzione!
Qualche mese addietro Nicola le aveva chiesto di più, ma lei aveva esitato. Non che il suo desiderio di appartenergli completamente non fosse forte, ma non lo era abbastanza da prevalere sulla sua educazione, su quell’imperativo che le era stato inculcato da sempre e che la voleva vergine all’altare. E poi lo aveva anche giurato alla madre, la quale, dopo aver scoperto un paio d’anni prima la sua relazione con Nicola, in cambio la copriva con il padre.
— Come vorrei averlo fatto! Forse Nicola non se ne sarebbe andato.
Anche donna Assunta ripensava alle parole della veggente.
— No, Nicola non è un debole, Santa mia, almeno in questo vi siete sbagliata.
Erano tante le cose brutte che lei, da molti anni a questa parte, aveva sepolto nel più profondo del suo cuore, nascondendole agli altri e soprattutto a se stessa, ma la situazione che si era creata adesso gliele faceva esplodere dentro con la violenza dell’eruzione di un vulcano. Nicola era stato l’unico, nonostante la giovane età, a opporre una qualche resistenza allo strapotere che don Carmelo esercitava sulla sua famiglia da quando suo marito Pasquale era morto in guerra, mentre l’esercito italiano era impegnato a spezzare le reni alla Grecia. Il cognato la aiutava sì economicamente, ma in cambio si ingeriva pesantemente nella sua vita, in tutte le decisioni di un certo peso, soprattutto in quelle che riguardavano l’educazione del ragazzo.
Lui, che non aveva figli maschi, ( mischina, me soroVincenza, sulu tri figghi fimmini ci detti…) pretendeva di crescere Nicola come figlio suo. Le aveva anche chiesto di mandarlo a vivere da lui, ma il bambino non ne aveva voluto sapere: se lo avessero costretto a farlo, lui sarebbe fuggito dalla casa dello zio alla prima occasione.
Accettò, a malincuore, di trascorrere l’estate nella masseria che don Carmelo possedeva non lontano dal paese. No, suo figlio non era un debole, non era uno che accettava facilmente che fossero gli altri a decidere della sua vita.
Le venne in mente un episodio accaduto quando Nicola non aveva ancora dodici anni. Don Carmelo lo aveva voluto con sé per una battuta di caccia al coniglio selvatico. Il bambino c’era andato e si era ritrovato tra le mani un fucile carico. Alla vista di una preda, che brucava inerme l’erba in una radura, il padrino gli aveva imposto di sparare e lui aveva colpito in pieno la bestiola, riscuotendo per questo un sacco di elogi dallo zio e dai suoi amici. Nicola però a quel punto aveva lasciato cadere a terra il fucile e da quel giorno non ne aveva più imbracciato uno, nonostante che, per quel suo rifiuto, don Carmelo lo sgridasse o lo prendesse pesantemente in giro. Ma lui non aveva ceduto.
Sì, don Carmelo aveva voluto prendere proprio in tutto il posto del cognato morto, anche tra le lenzuola della vedova…
— Perdonami, Pasquale!
Era successo diversi anni prima: all’inizio donna Assunta aveva resistito alle sue avances, che si erano però ben presto trasformate in minacce, più o meno velate, di abbandonare lei e il figlio al loro destino. E lei aveva finito per cedere, perché c’era la casa da mandare avanti con un minimo di decoro, perché c’era Nicola da crescere e il poco denaro che lei guadagnava con il suo lavoro di sarta non bastava mai.
Non era durato molto, per fortuna, quel rapporto che le rendeva così difficile guardare negli occhi il figlio e la sorella: non era stata una forte attrazione fisica a spingere don Carmelo nel suo letto, quanto piuttosto il bisogno di affermare anche in quel modo il suo totale possesso su di lei e sul figlio. Soddisfatto quello, le sue attenzioni si erano rivolte altrove.
Nicola non aveva mai saputo niente di tutto questo, anche se a volte a donna Assunta veniva il dubbio che il ragazzo, così cordiale e disponibile con tutti, in qualche modo lo avesse confusamente intuito, perché aveva nei confronti di don Carmelo, pur nel rispetto dovuto al padrino, una diffidenza e un’ostilità repressa che s’erano accresciute con il tempo.
Ed era proprio per opporsi allo zio, il quale voleva fare di lui un avvocato, che Nicola, dopo lunghe discussioni in casa, s’era iscritto tre anni prima alla Facoltà di lingue dell’Università di Palermo. Il ragazzo era portato per le materie umanistiche, ma donna Assunta sapeva bene che in quella scelta aveva giocato un ruolo determinante l’intenzione di Nicola di sottrarsi in futuro a ogni possibile coinvolgimento professionale nelle attività del padrino: che se ne poteva fare la famiglia di un laureato in lingue?
Era stato uno scontro duro: il ragazzo minacciava di interrompere gli studi, lo zio di non pagarli. Lei, nel mezzo, s’era schierata dalla parte del cognato, ma Nicola non mollava. Inaspettatamente fu don Carmelo a cedere, probabilmente perché era prevalso in lui il desiderio di avere comunque il primo laureato in famiglia.
— Se mi fossi liberata da questa schiavitù, se avessi appoggiato con più forza mio figlio, anche a costo di patire la fame, forse lui non se ne sarebbe andato.
L’Ape di zù Ciccio si fermò accanto al marciapiede davanti al cancello di casa. Damiana saltò a terra e aiutò donna Assunta a scendere, poi salutò e si allontanò in fretta coi suoi pensieri. Anche zù Ciccio rifiutò il caffè che Donna Assunta gli offriva. S’era fatto tardi e doveva proprio andare. No, non poteva accettare piccioli, vabbè, grazie, baciamo le mani, ci avrebbe comprato le Nazionali e bevuto un paio di bicchieri alla sua salute.
Con la coda dell’occhio donna Assunta vide, ferma all’angolo della strada, una sagoma che conosceva bene.
— Vinne a cuntrullàremi, a chiedermi dove sono andata. Lui vuole sempre sapere tutto, tenere tutto sotto controllo. Ma di notizie da darmi non ne ha — pensò.
Provava un senso di ripulsione all’idea di parlare con don Carmelo: in quel momento non gli avrebbe chiesto di continuare a cercare Nicola, lo avrebbe accusato di essere stato lui la causa della sua fuga. Finse di non vederlo e spinse il cancelletto del cortile.
Sulla soglia di casa sentì dentro una fitta dolorosa al pensiero di ritrovarsi sola in quelle stanze così vuote.
Mentre apriva il portoncino, pensò per un attimo che forse, entrando nella camera di Nicola, lo avrebbe trovato lì, seduto alla scrivania a leggere, o sdraiato sul letto ad ascoltare musica alla radio, ma in cuor suo sapeva già che non sarebbe stato così.
II
LA SPIAGGIA
L’automobile correva veloce sulla litoranea in direzione di V., tra alte colline aspre e rocciose, che la primavera addolciva in quei giorni con macchie di verde tra i massi e le sassaie e con i colori di radi arbusti in fiore. Di lì a poche settimane quelle alture avrebbero ritrovato il loro aspetto più consueto: brune, aride e gialle per l’erba secca. Spicchi di mare, laggiù in basso, apparivano e scomparivano fugaci al susseguirsi delle curve.
La sicurezza con la quale la vettura affrontava a velocità sostenuta la tortuosa serpentina rivelava la consuetudine del conducente col percorso. L’auto uscì finalmente dall’ombra d’un lungo canalone tra le rocce; agli occhi del conducente si spalancò all’improvviso lo spazio aperto d’una grande baia deserta. La luce azzurra del cielo e del mare uniti quasi l’abbagliò.
Da quel punto la strada incominciava a scendere, fino a portarsi a poche decine di metri d’altezza sulla costa. La meta era ormai prossima: l’auto rallentò, svoltò in un viottolo che risaliva la collina e percorse poche decine di metri fino a uno spiazzo naturale, non visibile dalla strada. Si fermò accanto a una grossa moto, parcheggiata lì.
— È già arrivato — pensò l’uomo, scendendo dall’automobile.
Aveva passato da qualche anno la cinquantina, con il corpo un po’ pingue e i capelli così neri da poter far nascere qualche sospetto. Ridiscese a piedi il sentiero fino alla litoranea, la attraversò e si fermò incantato per qualche secondo a guardare il mare, che si estendeva lontano e blu davanti ai suoi occhi. Il tratto di costa sottostante invece non era visibile da lassù, nascosto da alti speroni rocciosi.
Rosario s’era molto meravigliato quando, riaprendo il suo negozio di orologeria dopo la pausa di mezzogiorno, aveva trovato a terra quel biglietto infilato sotto la serranda:
VIENI AL SOLITO POSTO APPENA PUOI. HO BISOGNO URGENTE DI PARLARTI. N.
Era da tanto tempo che non riceveva più da lui questo tipo di messaggi. Aveva riabbassato in fretta la saracinesca, appeso il cartello Torno subito ed era immediatamente partito.
— Che cosa ci sarà mai di tanto urgente? E poi perché farmi venire fin qui? — borbottò tra i denti.
Adesso lo aspettava una discesa ripidissima e scivolosa fino alla riva. Lui la affrontò con molta prudenza, attento a non cadere.
— Non sono più quello di una volta — pensò sentendosi in difficoltà.
Una volta quella discesa la percorreva quasi di corsa, perché laggiù, ad aspettarlo nel loro rifugio segreto, c’era lui, e il tempo che avevano per stare insieme era sempre poco. Finalmente fu di sotto, percorse un centinaio di metri sull’arenile sassoso, infilò uno strettissimo passaggio tra due costoni rocciosi che si aprivano a V fin dentro l’acqua e racchiudevano un minuscolo tratto di spiaggia, visibile solo dal mare, ricoperto di ghiaietto fine. Il posto era deserto, come sempre. Ma neanche lui c’era.
— Ecco, io mi rompo l’osso del collo per arrivare di corsa fin qui, e adesso lui dove minchia è sparito?— si chiese con una punta di irritazione.
Eppure doveva esserci, quella di sopra era la sua moto: Rosario non aveva dubbi. Si guardò intorno e vide il mucchietto dei vestiti ripiegati su di un masso. Si voltò verso il mare e scorse in lontananza tra le onde la testa dell’amico che nuotava per tornare a riva.
— È proprio matto a fare il bagno di questa stagione— pensò. Si accostò alla battigia e rimase ad aspettare.
Il bagnante emerse nudo dall’acqua e avanzò gocciolante verso di lui. Era sulla quarantina, alto e con il corpo bruno e snello ben modellato dal mare.
— Sei sempre una gioia per gli occhi, Nunzio — pensò l’uomo sulla sponda, intenerito.
— Scusa, Rosario, se ti ho fatto aspettare. Faceva un gran caldo e ho pensato di farmi due bracciate. L’acqua è ancora molto fredda, ma chissà che non mi chiarisca un po’ le idee. Ho la testa così confusa… — disse rivolto soprattutto a se stesso. E, all’amico:
— Sei arrivato in fretta.
— Certo, mi sono precipitato appena ho letto il tuo biglietto. Ho pensato immediatamente che fosse una cosa grave, anche perché sennò me ne avresti parlato stasera.
Ti ricordi che tu e Luisa siete a cena da noi, vero? — chiese Rosario.
— Sì, sì, ma preferivo parlartene subito e in un posto sicuro. È successa davvero una cosa grave…
Nunzio si interruppe, andò verso i suoi vestiti e si infilò le mutande sul corpo ancora bagnato.
— Dai, racconta, non tenermi sulle spine! — lo incalzò Rosario alle sue spalle.
L’altro si sedette a terra. Si passò entrambe le mani sul capo. Sembrò improvvisamente stanco e smarrito:
— Nicola se ne è andato.
— «Se ne è andato» cosa significa? Ti ha lasciato? — chiese Rosario.
— Significa che è sparito dal paese senza dire niente a nessuno, ormai da una decina di giorni. Era da troppo tempo che non si faceva più vivo e io incominciavo a sentirmi inquieto. Mi sono fatto imprudente e sono passato ieri a casa sua, con la scusa che avevo bisogno di farmi tradurre una lettera in inglese. Donna Assunta era disperata e mi ha raccontato tutto. È scomparso così — Nunzio schioccò le dita — e nessuno sa dove sia.
— Ma aveva dei problemi? Avevate dei problemi?
— A casa sua quelli di sempre. A volte mi parlava con fastidio dello zio, mi diceva che era stanco di dover dipendere in tutto da lui. Niente di nuovo, però. E comunque nulla che assomigliasse alle crisi che aveva nei primi tempi che ci frequentavamo, quando mi confidava tremando di rabbia i suoi dubbi che tra la madre e il padrino ci fosse una relazione. E io a rassicurarlo che erano assurdità, fantasie prive di ogni fondamento, frutto solo della sua insofferenza nei confronti di quell’uomo, finché pian piano non riuscivo a calmarlo.
— Veramente in paese qualche voce correva, ma molto, molto sotterranea. Nessuno osa fare apertamente pettegolezzi sulle relazioni di don Carmelo…
Pronunciando quel nome Rosario si era voltato istintivamente a guardarsi alle spalle.
— E se Nicola avesse deciso di affrontare una buona volta il padrino faccia a faccia? E se lui…
— Adesso sei tu ad avere dei dubbi assurdi. Nicola sopportava da anni questa situazione. Non si è ribellato apertamente allo zio quand’era più giovane e impulsivo. Perché avrebbe dovuto farlo proprio adesso? E poi don Carmelo ha la fama che ha, ma Nicola è suo nipote.
Non gli avrebbe mai torto un capello — rispose Rosario, detergendosi il sudore.
— Sì, sì, hai ragione. Oltretutto Nicola sembrava più rilassato, da qualche tempo, via via che superava gli esami e si avvicinava alla laurea. Studiava molto, perché voleva finire prima possibile. Sperava che dopo si sarebbe potuto finalmente liberare dalle pastoie famigliari. Mi parlava dei suoi progetti. Diceva che, dopo aver trovato un lavoro, avrebbe venduto la casa per trasferirsi in città con la madre.
Rosario taceva, aspettando che l’amico rispondesse adesso alla seconda domanda. Sapeva che per lui sarebbe stato più difficile farlo. Nunzio aveva sempre avuto molto pudore a parlargli del suo nuovo amore, da quando, tre anni prima, aveva improvvisamente troncato la loro lunga relazione:
— Ti voglio molto bene, Rosario, come a un fratello maggiore. Te ne vorrò sempre, devi credermi, ma mi sono innamorato di un altro. E non posso fare a meno di lui.
Quelle parole erano state per Rosario più violente di un pugno in pieno stomaco e da allora si erano impresse nella sua mente come scolpite nella roccia. La fine della storia era stata un incubo per entrambi, soprattutto perché non si poteva troncare completamente ogni rapporto e neppure sospendere, almeno temporaneamente, le abituali frequentazioni tra le loro famiglie: ci sarebbero state troppe domande imbarazzanti da parte delle rispettive mogli, da anni ormai buone amiche.
Rosario provava ancora una stretta al cuore ripensando allo strazio delle prime serate trascorse tutti insieme a casa sua, dopo che Nunzio lo aveva lasciato. Mentre le due donne, sulla grande terrazza, preparavano chiacchierando la grigliata di pesce e i bambini giocavano rumorosamente, i due uomini se ne stavano seduti al grande tavolo, l’uno di fronte all’altro, evitando di guardarsi negli occhi, sforzandosi di parlare di banalità, tanto per non far nascere sospetti con il loro mutismo.
Poi, lentamente, s’erano adattati alla nuova situazione: Rosario sapeva che l’affetto e la stima di Nunzio nei suoi confronti erano autentici e cercava di ricambiarlo solo con gli stessi sentimenti, anche se le ricadute nella passione e gli attacchi di gelosia non erano mancati. Pian piano avevano ricominciato a comportarsi con maggior naturalezza, ma la fine dell’antica complicità lasciava ancora nell’animo di Rosario vuoto e solitudine.
Dopo l’abbandono, Rosario aveva avuto solo sporadiche avventure. Non mancavano in zona luoghi appartati dov’erano possibili incontri di sesso, soprattutto con marinai di passaggio o con turisti del nord che si trattenevano per qualche giorno in città, in attesa di imbarcarsi per il Marocco o la Tunisia. Cercava di frequentare quei posti il meno possibile, solo quando il desiderio gli bruciava dentro in modo insopportabile, perché sapeva che, dopo, sarebbe ritornato a casa con la bocca amara, frustrato dall’insuccesso o inappagato da un rapporto anonimo e frettoloso. Da qualche mese si vedeva però regolarmente con un giovane pugliese, soldato di leva in città. Ben consapevole che quella storia sarebbe finita insieme alla naia di Enzo, cercava di viverla in leggerezza, senza porsi troppi problemi, godendo, come di un dono inaspettato, dell’allegria, dell’affetto, del corpo del giovane amico. Ne aveva anche parlato con Nunzio, che si era prestato qualche volta a coprirlo con sua moglie, quando bisognava trovare una scusa per vedere Enzo.
Ricambiava così un favore che lui aveva già fatto diverse volte all’amico, nel corso degli ultimi tre anni, quando Nunzio e Nicola volevano incontrarsi.
Della loro storia però Rosario non sapeva molto. Non aveva mai fatto domande, un po’ per non infliggere a se stesso delle inutili sofferenze, un po’ per non risvegliare i sensi di colpa di Nunzio nei suoi confronti. Si era limitato a chiedere qualche volta, con studiata indifferenza:
— Allora, tutto bene con Nicola?
E la risposta era stata sempre la stessa:
— Sì, tutto bene, grazie.
Nunzio conosceva Nicola fin dai tempi del liceo. Era stato il suo insegnante di educazione fisica nel triennio superiore. Gli era riuscito subito simpatico, anche se in ginnastica non era certo tra i migliori: ragazzo estroverso, dal carattere allegro, sempre disposto allo scherzo e alla battuta, sembrava prendere tutto alla leggera, ma nello studio si impegnava. Magro e tutto spigoli, sovrastava in altezza i compagni di classe; era buffo quando camminava con le spalle un po’ curve in avanti e un’andatura lenta e dinoccolata, o quando correva insieme agli altri nel cortile della scuola, con le braccia e le gambe che sembravano in disaccordo, come se lui non avesse ancora preso piena confidenza con quegli arti troppo lunghi e cresciuti troppo in fretta. L’unica cosa davvero bella di Nicola erano gli occhi grandi e chiari, che offrivano un percorso perfino troppo facile fin dentro alla sua anima, coi loro lampi di luce azzurra a rivelarne gli attimi di gioia e il loro incupirsi blu nei momenti di improvvisa tristezza. Anche la sua viva curiosità per tutto quello che lo circondava traspariva da quegli occhi: Nicola te li puntava addosso quasi volesse leggerti dentro.
Nunzio gli aveva consigliato di praticare regolarmente il nuoto e quello era stato il consiglio giusto: nel giro di un paio d’anni il ragazzo si era irrobustito nel fisico e, crescendo, s’era addolcito nei tratti del viso. Dell’adolescente spilungone siccu siccu di prima non restava più traccia: era diventato un giovane uomo molto attraente e le picciotteavevano presto incominciato a ronzargli intorno.
— È fin troppo bello — aveva pensato Nunzio vedendo una volta Nicola uscire dagli spogliatoi, con addosso il solo telo per la doccia, dopo l’ora di ginnastica in palestra — E poi quegli occhi che sembrano aver capito tante cose, forse troppe… Beh, tra pochi mesi lascia il liceo e non lo vedo più. Meglio così!
Ma alla fine dell’estate della maturità si erano incontrati di nuovo nel bel mezzo di una affollatissima festa di neodiplomati. Era stato Nicola ad avvicinarlo, facen-dosi largo tra la calca degli invitati. Lo aveva preso per un braccio e quasi trascinato in un posto più appartato e meno rumoroso: aveva un sacco di cose da raccontargli, quasi fossero stati due vecchi amici che non si vedevano da anni. In realtà a scuola dei grandi discorsi non li avevano mai fatti. Durante la loro conversazione Nunzio si era reso conto che il suo ex allievo era ben informato su di lui, sulle sue abitudini, perfino sulle sue attività durante l’estate, come se in quei mesi non lo avesse mai perso di vista.
Questo lo aveva fatto sentire un tantino a disagio; gli sembrava anche che quel loro starsene da soli in disparte fosse già durato troppo a lungo: forse sua moglie, anche lei presente alla festa, stava già chiedendosi dove fosse andato a finire. E poi la gente fa presto a pensare a chissà che.
— Bene, Spada, mi ha fatto davvero piacere rivederti. Ma forse è meglio che tu adesso raggiunga i tuoi compagni, che di sicuro ti stanno aspettando.
Ma pareva proprio che Nicola non avesse altro interesse se non quello di starsene lì, in sua compagnia. Era stato Nunzio allora ad accomiatarsi con un pretesto.
— Mi sembra di sentire la voce di mia moglie che mi chiama. Grazie per la chiacchierata, Spada. In bocca al lupo per l’università. E, mi raccomando, continua con il nuoto.
Aveva trascorso il resto della serata tra i colleghi, partecipando piuttosto distrattamente ai loro discorsi.
Un paio di giorni dopo, mentre Nunzio dormicchiava disteso al sole su uno scoglio di una delle isolate e deserte spiaggette che lui tanto amava, aveva sentito sulla pelle il fresco di un ombra schermargli il sole.
— Non ti spaventare, professore. Sono io.
Non poteva essere capitato lì per caso: evidentemente lo aveva seguito.
Fu quello stesso giorno che Nicola gli disse di essersi innamorato di lui. Nunzio si era sentito intenerito nel profondo da quella inaspettata dichiarazione d’amore, insieme ingenua e determinata. Gli aveva risposto aprendosi a lui con sincerità, gli aveva spiegato di essere impegnato sentimentalmente – ma Nicola lo sapeva già – e lo aveva anche invitato a considerare la differenza di età tra di loro: ma anche di questo a Nicola non importava nulla.
Gli aveva parlato a lungo, mentre Nicola taceva pazientemente e lo guardava in viso con i suoi occhi chiari, che in quel momento sembravano sorridere un po’ ironicamente. E mentre lui si sforzava di porre il ragazzo di fronte alla realtà delle cose, mentre gli elencava tutte le difficoltà che una loro relazione avrebbe inevitabilmente comportato, si era reso conto che stava raccon-tando frottole a se stesso e all’altro: con le sue parole Nicola aveva sollevato la pietra: adesso l’acqua, che dal fondo della sorgente premeva per uscire fuori, stava già zampillando a fiotti.
Si erano amati su quella spiaggia per la prima volta, e, al momento di tornare a casa, si erano dati appuntamento per l’indomani, nello stesso posto. Da quel giorno avevano incominciato a frequentarsi con assiduità…
— mentre tu e io stavamo ancora insieme — pensò Rosario sentendo dentro una fitta familiare.
Nicola era troppo giovane, perché lui e Nunzio potessero farsi vedere in giro apertamente, «come amici», senza destare sospetti nella gente.
Ma il ragazzo sarebbe cresciuto, si sarebbe sposato e dopo sarebbe stato tutto più facile. Non era successa la stessa cosa anche a lui e Rosario, tanti anni prima? E anche loro un qualche trucco per vedersi di nascosto l’aveva sempre trovato, eccome.
— Chissà se si sono incontrati anche qui, nel nostro posto? — si chiese Rosario.
Era da tempo ormai che lui considerava definitivamente chiusa la sua storia d’amore con Nunzio, ma il loro ritrovarsi insieme lì, nel loro rifugio segreto, la vicinanza del suo corpo seminudo, il pensiero che forse il suo rapporto con Nicola era finito… tutto questo risvegliava in lui sensazioni sopite e lo turbava.
La voce dell’amico lo scosse dai suoi pensieri:
— Anche tra me e Nicola c’erano dei problemi, ma sembrava che pian piano avessimo imboccato la strada giusta per risolverli… o almeno per conviverci.
All’inizio della loro relazione Nicola scalpitava: avrebbe voluto che i loro incontri fossero più frequenti.
Dopo l’amore, il distacco era sempre faticoso: il ragazzo cercava di rimandare in ogni modo il momento della separazione. Il suo bisogno di essere posseduto, di possedere fisicamente l’altro sembrava insaziabile, perché viveva quell’atto come un suggello al loro tacito patto di appartenenza esclusiva, come la conferma del loro reciproco, totale possesso.
Aveva commesso anche delle imprudenze, come telefonargli a casa o passeggiare di notte nella sua strada, fin sotto le sue finestre.
— Francamente mi ero spaventato. Ho cercato di farlo ragionare, di spiegargli tutti gli obblighi di cautela che la mia situazione famigliare mi imponeva. E sembrava aver capito, anzi, ha capito senz’altro, ma ogni tanto si ricominciava da capo.
Mesi addietro Nicola gli aveva detto che non riusciva più a mentire a Damiana, che pensava di parlarle apertamente.
— E io a chiedergli: Ma tu le vuoi bene, no? E lei è contenta così, da quanto ne so. E allora perché devi rovinare tutto?
— È proprio perché le voglio bene, perché la rispetto, che non riesco più a mentirle. È una situazione schizofrenica, devo scegliere.
Non si era più fatto vedere per giorni e giorni, e Nunzio credeva ormai di averlo perso. Ma poi era tornato.
Nicola aveva cercato di dimenticarlo, aveva anche chiesto a Damiana un rapporto completo, per forzare le cose tra di loro, per costringersi in questo modo al matrimonio e chiudere con lui.
— Non so come sia andata tra di loro, ma Nicola è tornato perché non poteva fare a meno di me… Sto troppo male senza vederti.
— E io ho ricominciato a sperare che si sarebbe pian piano adattato. Lo so, questa nostra vita di sotterfugi a volte è insopportabile, ma cosa posso farci? Io non sono un arrusu, non voglio che i picciotti del paese mi segnino a dito, che mi facciano lo sfottò quando passo per strada, per poi venire magari la notte a farsi fare un pompino. Ti ricordi quel poveretto di Salvatore Vuccaduci?
— E come no? È stato lui la mia nave scuola. E la bocca l’aveva davvero dolce. Mi ha raccontato che durante il fascio lo avevano perfino mandato al confino, mischino, e aveva poco più di venti anni.
— E poi voglio davvero bene a mia moglie, — proseguì Nunzio dopo una pausa — non posso rinunciare alla mia famiglia, ai miei figli, al rispetto della gente, costi quel che costi. Ma non posso neanche fare a meno di Nicola. Non ce la faccio. Sto troppo male senza vederlo.
— Lo so bene anch’io quant’è difficile vivere così, ma non c’è alternativa — sospirò Rosario.
In realtà Nicola aveva parlato qualche volta a Nunzio di mondi lontani, nei quali si poteva vivere una vita diversa. Ma erano tanto, troppo lontani per poter offrire delle possibili alternative. Gli aveva detto che all’estero, in Germania, in Olanda, comunque al nord, quelli come loro erano più liberi, non rinunciavano alla loro identità, non volevano più subire i condizionamenti della società, della Chiesa. E gli diceva che la gente incominciava ad accettarli:
— Si riuniscono in associazioni, escono allo scoperto, lottano per far valere i propri diritti. Prima o poi succederà anche in Italia, vedrai.
— Mentre mi parlava di queste cose gli brillavano gli occhi. E io a guardarlo come se avesse parlato un marziano. Io minni futtu di uscire allo scoperto, io non sono un arrusu.
Nunzio sospirò:
— Mi rendo conto in questo momento che proprio allora stavo incominciando a perderlo — concluse con amarezza.
— Non essere così pessimista, dai. Forse è stato solo un colpo di testa, una ragazzata; forse per un attimo non ce l’ha più fatta a reggere la situazione e ha scelto il modo sbagliato per starsene un po’ da solo, per riflettere.
Ma vedrai che rientrerà in sé, vedrai che tornerà. L’ha già fatto, no? — disse Rosario, con un tono che si sforzava di essere convincente.
Ma forse Nunzio non l’aveva neppure ascoltato, seduto lì a terra con la testa appoggiata sulle ginocchia.
— Bisogna proprio che vada, adesso. Devo aprire il negozio, almeno per un paio d’ore. Sennò magari un cliente telefona a casa mia. E dopo chi la sente mia moglie? Ha sempre paura che io corra dietro a qualche gonnella.
Nunzio alzò la testa e lo guardò:
— Sì, certo. Sei stato buono con me, Rosario. Come sempre.
— Ma che buono e buono! Siamo amici, no? E tu che fai? Resti qui?
— No, devo tornare a casa. Mi aspettano.
— Allora vestiti in fretta e sali prima tu, che sei più veloce. A stasera.
Non dovevano uscire insieme sulla strada, perché sarebbe potuta passare proprio in quel momento l’auto di un paesano: chissà che cosa avrebbe pensato…
III
IL PRESIDE
Il preside Carmine di Maggio salì lentamente, gradino dopo gradino, le scale di casa. A un certo punto si sentì in affanno e si fermò, con il fiato grosso, deponendo a terra la borsa della spesa, che, gradino dopo gradino, era diventata sempre più pesante. Aspettò per qualche minuto, fino a che i battiti del cuore non furono di nuovo regolari, poi affrontò l’ultima rampa fino al pianerottolo del suo alloggio.
Sentiva ogni giorno di più la fatica di quella salita.
Quando aveva comprato l’appartamento, tanti anni prima, subito dopo il matrimonio con Caterina, le otto rampe di scale non gli pesavano. Quell’acquisto era stato un buon investimento, o almeno il migliore possibile, tenendo conto delle sue scarse disponibilità di insegnante appena assunto in ruolo. Lo stabile, vecchiotto ma decoroso, era situato in una zona centrale della città, in una via tranquilla; l’appartamento era grande e luminoso: peccato solo che fosse al quarto piano senza ascensore.
A trent’anni Carmine era secco come un chiodo, e – volendo – i gradini per arrivare fin lassù li avrebbe potuti salire quattro alla volta. Da allora però erano cresciuti gli anni e i chili, troppi, fin quasi alla vecchiaia e all’obesità. Quando lui e Caterina avevano festeggiato le nozze d’argento, alcuni anni prima, non avevano ancora finito di pagare il mutuo. Lui e la moglie avevano dovuto stare molto attenti a limitare all’osso le spese, per risparmiare i soldi della rata mensile. Caterina per fortuna era davvero brava a gestire in modo oculato le scarse risorse della famiglia: annotava scrupolosamente ogni spesa, passava instancabile da negozio a negozio alla ricerca dei prezzi più convenienti, riusciva perfino a «ringiovanire» con abilità i suoi vecchi capi di abbigliamento. Ed era anche un’eccellente cuoca, che sapeva preparare con ingredienti poveri dei piatti davvero gustosi. Carmine si chiedeva a volte come lei riuscisse sempre, a fine mese, a mettere addirittura qualche soldo da parte.
Nel corso di tutti quegli anni trascorsi insieme, lui era stato ben felice di demandarle ogni incombenza pratica, accettando senza fiatare i suoi verdetti:
— Quest’anno niente viaggio per Pasqua a Taormina da tuo fratello. Tra regali e spese di trasferimento si spenderebbetroppo e bisogna comperare una ghiacciaia nuova prima che arrivi l’estate. E in autunno anche un vestito decente per te, che non devi sfigurare in mezzo ai tuoi colleghi.
Lei non aveva potuto studiare ed era orgogliosa del marito professore di liceo. A Carmine pesavano solo i suoi risparmi sull’acquisto dei libri: lui avrebbe speso metà del suo stipendio per comprarne, ma doveva ammettere che la libreria nel suo studio era ormai piena e che si potevano anche prendere i libri in prestito alla biblioteca del liceo o a quella comunale. Certo, è tutta un’altra cosa, se non puoi fare sottolineature con matita e righello, ma, insomma, nella vita non si può avere tutto.
Adesso che non c’era più il mutuo da pagare e che lui aveva una buona pensione, perché negli ultimi anni di carriera aveva percepito, come preside, uno stipendio discreto, Caterina avrebbe potuto permettersi addirittura qualche lusso, se non altro quello di non dover più lesinare il centesimo. Ma lei se ne era andata, dopo una malattia dal decorso rapido e devastante.
Era stato un matrimonio sereno, il loro, anche se il figlio tanto desiderato da entrambi non era venuto. Sì, era stato un legame solido, quello fra lui e Caterina, anche se il loro amore non assomigliava neppure vagamente alle grandi passioni di cui Carmine parlava durante le lezioni o di cui scriveva in lunghe poesie nascoste in fondo a un cassetto:
— Chissà se Caterina le ha mai lette, le mie poesie. Chissà se le sono piaciute, se ha magari pensato di esserne lei l’ispiratrice.
Carmine adesso ne sarebbe stato felice.
No, Caterina non gli aveva ispirato passioni travolgenti e neppure poesie. Ma neanche altre donne, in realtà. I suoi versi erano un inno all’amore, più che a una donna reale; erano il suo omaggio a quella passione sublime che l’aveva spesso commosso leggendo le opere dei grandi della letteratura e che aveva sentito palpitare dentro di sé solo tramite la forza dei loro versi.
Ma la realtà è un’altra cosa: forse bisogna essere grandi uomini, per provare sentimenti così sublimi. E grandissimi poeti, per trovare un editore che ti pubblichi. Lui ci aveva provato inutilmente un paio di volte e poi aveva lasciato perdere.
Ma non per questo si era sentito un incompreso: aveva un forte senso autocritico e capiva bene che il mondo poteva fare tranquillamente a meno delle sue poesie.
Però aveva continuato a scriverle.
Anche se non era stata né la sua Beatrice né la sua Fiammetta, c’era comunque qualcosa in Caterina che lo aveva sempre affascinato. A volte lui interrompeva le sue letture o la correzione dei temi dei suoi studenti e restava lì, con il lapis rosso e blu tra le dita, a guardarla mentre sfaccendava per casa o preparava la cena o se ne stava seduta in poltrona a sferruzzare. Era sempre un po’ stupito di vedere come da quelle mani indaffarate uscisse ogni volta qualcosa di buono. E anche le soluzioni che lei proponeva per certi problemi che riguardavano la gestione della casa, la carriera del marito o i loro rapporti con parenti e amici, lo riempivano di ammirazione, tanto erano semplici e allo stesso tempo efficaci.
Non si poteva proprio dire che lui avesse un rapporto particolarmente diretto con la realtà:
— Tu vedi le cose prima con il cervello che con gli occhi — gli aveva detto una volta la moglie, che lo conosceva bene.
Il professor di Maggio infatti tendeva a prendere in esame le cause, gli effetti, le correlazioni, i vantaggi, gli svantaggi e via dicendo fino ai significati simbolici o culturali degli accadimenti: questo gli impediva a volte di afferrarne al volo l’essenza prima, la natura più schietta e immediata. Dopo l’analisi, la sua visione dei fatti era probabilmente più ampia e approfondita di quella della moglie, ma spesso bisogna formarsi un giudizio in tempi rapidi, senza troppo indugiare su tutte le possibili alternative e prendere una decisione in fretta, sennò il treno parte senza di te. E lui, senza di lei, di treni ne avrebbe persi parecchi.
Era per questa ragione che, se da un lato il professore ammirava incondizionatamente il genio dei grandi, di quelli che riescono a dar vita nelle loro opere all’intera gamma delle passioni umane o a restituire lo spaccato della società del loro tempo o a rendere visibili e udibili, in colori e in note, i sentimenti dell’uomo, Carmine era ancora più fortemente attratto dalle persone che la realtà, per una qualche misteriosa ragione, più che rappresentarla avevano il dono di incarnarla, almeno ai suoi occhi. Quegli uomini e quelle donne erano per lui l’opera d’arte più bella. Per questo si era innamorato a prima vista di Caterina, della sua serena bellezza, che evocava un mondo di semplicità, di armonia, di sincerità di affetti, di pudore non simulato, che portava nel suo essere un passato di gente onesta e laboriosa.
In famiglia però la sua decisione di sposare quella giovane popolana non era stata bene accolta. Il padre, cancelliere al tribunale di Palermo, durante una discussione lo aveva ammonito:
— Ti stancherai presto di una donna che non è culturalmente al tuo livello.
Lui gli aveva risposto con una battuta:
— Delle conversazioni intelligenti con una donna ci si stufa prima che della sua bellezza.
E in un certo senso non si era sbagliato: anche quando la bellezza giovanile di Caterina era sfiorita, lei aveva continuato a evocare in lui un senso di sicurezza, di onestà, di ordine, di pulizia, che lo faceva star bene.
Il preside infilò la chiave nella toppa e aprì la porta dell’appartamento.
Gli venne incontro la sua gatta.
— Non uscire, Titti. Vieni dentro, dai: non c’è la tua padrona, sulle scale.
Neanche Titti si era ancora abituata all’assenza di Caterina, anche lei soffriva di solitudine. I primi giorni se ne andava in giro per le stanze cercandola, poi aveva smesso, ma i vicini la sentivano miagolare se restava sola in casa: prima non l’aveva mai fatto. Si metteva davvero tranquilla solo quando poteva sonnecchiare sulla pancia di lui, seduto in poltrona. E lui si era rassegnato a quella novità.
— Vengo subito, Titti. Mi metto in poltrona a leggere ilgiornale. Ma prima mi devo fare una doccia.
Andò in bagno e si tolse la camicia e la canottiera madide di sudore: i peli bagnati aderivano alla pelle, sul petto e sulla pancia prominente, in asimmetriche volute grigiastre. Distolse lo sguardo dalla specchio. Con un piede su uno sgabello si tolse una scarpa e faticosamente incominciò a sfilarsi i pantaloni. Fu in quel momento che sentì squillare il telefono. Si affrettò verso il soggiorno, zoppicando sull’unica scarpa e saltellando per l’impiccio dei pantaloni abbassati fino a metà gamba.
Ma non era lui. Chissà perché ci aveva sperato.
Era Jole, la miglior amica di Caterina, che, da quando la moglie era morta, gli telefonava tutti i giorni. Lui non sapeva se quelle telefonate gli procurassero più piacere o più fastidio.
— Sì, sì, sto bene, Jole, grazie… No, no, non ho ancora incominciato a preparare il pranzo, non mi disturbi… Mah, non so, penso pasta con la salsa di pomodoro, lo sai che non sono un gran cuoco… Sì, sì, mangio anche carne, frutta e verdura: non preoccuparti, non mi trascuro… Sì, anche stamattina sono andato da Caterina: la tomba è in ordine, i fiori che le hai portato tu sono ancora bellissimi nonostante il caldo… Già, è davvero una primavera strana… Ora ti devo lasciare, grazie per aver chiamato. Va bene, domani ti chiamo io.
Anche quella mattina Carmine era andato in cimitero da Caterina; sentiva il bisogno di raccontarle un fatto strano che gli era capitato, così strano che certamente a lei viva non sarebbe riuscito a confidarlo. Invece adesso poteva farlo. Era incominciato tutto solo qualche giorno prima, al mercato. Mentre si faceva pesare una fetta di pesce spada da cucinare ai ferri, lo aveva avvicinato un giovane dai modi gentili:
— Lei è il preside di Maggio, vero?
Gli capitava abbastanza spesso che per strada lo fermasse qualche suo ex allievo: si trovava di fronte un uomo o una donna ormai adulti e solo raramente li riconosceva, nonostante che a volte avessero un’aria vagamente familiare.
Alla loro inevitabile domanda Si ricorda di me?rispondeva di solito affermativamente, per non deluderli, nella speranza che nel corso della conversazione emergessero elementi per una più precisa identificazione.
Con quel ragazzo non ci provò neanche a mentire: non lo aveva proprio mai visto. E poi era troppo giovane per essere stato in una sua classe: gli ultimi allievi che aveva avuto prima di lasciare l’incarico di insegnamento erano ormai uomini e donne fatti. Forse aveva frequentato il liceo di Palermo di cui lui era stato preside, prima di andare in pensione, ma lì le classi erano tante…
Glielo chiese.
— No, preside, io ho frequentato il liceo scientifico a Trapani. Lei è stato nostro preside un anno solo, quando io ero inprima. Mi chiamo Nicola, Nicola Spada.
Carmine di Maggio si ricordava bene del liceo scientifico di Trapani, dove aveva avuto la sua prima nomina a preside, si ricordava le alzatacce antelucane per affrontare un viaggio scomodo e sproporzionatamente lungo per la distanza tra le due città, con il treno che viaggiava su un binario unico.
Aveva affrontato quell’incarico con spirito pionieristico, consapevole che gli inizi di carriera sono difficili per tutti, ma la sera tornava a casa con tutt’altro spirito.
Per sua fortuna quello stesso anno si era reso vacante un posto di preside a Palermo: lui, fresco di nomina e senza santi in paradiso, non ci sperava proprio di poter ottenere quel trasferimento; fosse stato per lui, neanche avrebbe fatto domanda, ma Caterina lo aveva spinto a provarci, e aveva avuto ragione. Così il preside di Maggio aveva lasciato dopo un solo anno scolastico il liceo di Trapani, ma si ricordava ancora molto bene di Nicola Spada, anche se in quel giovane alto e prestante che gli stava di fronte non avrebbe mai e poi mai riconosciuto il ragazzetto gracile, dalla faccia pallida e dai grandi occhi chiari, così mobili, che lui ricordava.
Lo guardò: si era fatto davvero un bel ragazzo, anche se non sembrava passarsela molto bene, con gli abiti in disordine e la barba lunga.
Arrivando al liceo di Trapani, dove Carmine aveva preso servizio qualche tempo dopo l’inizio dell’anno scolastico, aveva colto un nervosismo diffuso, di cui non capiva la ragione. Sembrava che tutti avessero una cosa importante da dirgli ma che non riuscissero a farlo. Finalmente il suo segretario gli rivelò, con giri di parole un po’ tortuosi – perché è difficile parlare di mafia, dato che la mafia non esiste – quello di cui nessuno osava parlava apertamente ma che tutti, insegnanti, allievi e genitori, ben sapevano: tra gli alunni della prima B c’era Nicola Spada, il nipote di uno dei principali esponenti della cupola.
Di Maggio quella sera a casa ne aveva parlato con la moglie. Su suo suggerimento, ( conviene prendere subito il toro per le corna, prima che faccia troppi danni…) aveva convocato a breve il Consiglio della prima B e, a insegnanti molto attenti alle sue parole e un po’ sulle spine, aveva chiesto, data la situazione, di esercitare una più stretta vigilanza in classe, pregandoli anche di tenerlo aggiornato su qualunque fatto anomalo si fosse verificato nel comportamento e nei rapporti tra i ragazzi.
Certo non poteva dire apertis verbis che c’erano da temere problemi di ogni tipo, in una classe in cui i padri di alcuni allievi avevano probabilmente subìto ritorsioni o dovevano pagare il pizzo allo zio di uno dei compagni del figlio, mentre altri padri magari erano sodali di quella stessa persona. Ma gli insegnanti capirono bene lo stesso.
In realtà, di fatti anomali in classe per fortuna non ce ne furono: i compagni accettarono presto Nicola, perché era simpatico e generoso; fu invece lui a creare un piccolo caso, almeno in una circostanza che il preside ricordava ancora bene.
Una mattina era venuta nel suo ufficio l’insegnante di italiano e di latino della prima B. Era visibilmente preoccupata: in un tema in cui si chiedeva ai ragazzi di tratteggiare la storia della regione, Nicola Spada aveva parlato espressamente dell’«onorata società», bollandola come «il cancro della Sicilia». Nell’elaborato il nipote del boss tracciava un quadro fin troppo preciso delle attività della mafia nella zona, dei suoi strumenti intimidatori, delle connivenze, delle omertà. Naturalmente non aveva fatto nomi ma, per chi abitava come lei in città, certe cose erano fin troppo chiare. L’insegnante era un donna equilibrata, e al lavoro, ben scritto, aveva assegnato un bel voto. Ma adesso bisognava restituire i temi in classe perché i ragazzi leggessero le correzioni, e lei non sapeva che fare. Finora era stata la professoressa l’unica depositaria delle «confidenze» di Nicola, ma se quei fogli fossero circolati liberamente per la classe, se altri ragazzi li avessero letti e ne avessero magari parlato a casa, chissà cosa sarebbe potuto succedere. Bisognava assolutamente evitarlo.
E così fu fatto: i temi non vennero restituiti, l’insegnante comunicò agli studenti in classe i soli voti e i giudizi. Spiegò loro che, per non sottrarre tempo alla lezione, preferiva mostrare a ogni singolo allievo le sue correzioni, in modo da poter anche compiere con ciascuno di loro un’analisi più approfondita degli errori. Per alcuni giorni, durante l’intervallo, ci fu la processione degli allievi di prima B in sala insegnanti. Solo Nicola non andò. Il preside allora lo convocò nel suo ufficio.
Carmine di Maggio non ricordava più esattamente cosa avesse detto al ragazzo in quella circostanza, ma si era sentito in imbarazzo davanti a quei grandi occhi che lo scrutavano in viso con una punta di ironia. Ricordava bene le parole di Nicola alla fine del colloquio:
— Va bene, signor preside, farò come dice lei: in futuro nonaffronterò più questi argomenti. Ma mi chiedo perché, se quello che ho scritto è tutto vero…
— Non mi sarei mai immaginato di incontrarlo lì, al mercato del pesce, Caterina. Gli chiesi se aveva fatto colazione, e lui rispose di no. Lo invitai al caffè, ma mi disse che avrebbe preferito un luogo più riservato, per ragioni che mi avrebbe spiegato dopo. Mentre pagavo il pesce, lui prese la mia borsa della spesa e me la portò per tutto il tragitto fino a casa. E io lo feci salire. Mentre mangiava – credimi, Caterina, non era solo la barba che non si faceva da un paio di giorni, ma neanche un pasto decente – mi spiegò come mai si trovava per strada e in quelle condizioni. Era scappato da casa seguendo un impulso improvviso, senza prendere niente con sé, perché a un certo punto gli era parso che il mondo stesse per crollargli addosso e non riusciva a vedere altra possibilità oltre la fuga per sottrarsi allo zio, alla sua asfissiante tutela, alla madre che non sentiva dalla sua parte, alla fidanzata che amava, ma alla quale doveva nascondere tanto di sé, all’uomo con cui aveva una relazione e che non sarebbe mai stato del tutto suo perché era sposato. Mi disse di aver trascorso qualche giorno qui in città a casa di un compagno di studi, ma di essersene andato via per non metterlo in pericolo, non appena nella strada dove l’amico abitava erano comparsi tipi strani che chiedevano di lui in giro. Da un altro compagno di università si era fermato ancora meno, per paura che anche lì accadesse la stessa cosa.
L’ultima notte l’aveva passata dormendo su una panchina del parco.
Mi chiese se poteva restare qualche giorno da me:
— Solo il tempo di rimettermi in forze, preside, poi parto per il Continente. Sono sicuro che se resto qui mio zio prima o poi mi troverà e mi costringerà a tornare a casa. Solo un paio di giorni, non vorrei causare anche a lei delle difficoltà.
Gli risposi che lo avrei ospitato volentieri, per tutto il tempo che gli serviva. Abbiamo parlato a lungo, quel pomeriggio. Avevamo entrambi bisogno di sfogarci. A parte i discorsi con Jole, con Titti e con il tuo ritratto sul comò in camera da letto, passo giorni interi quasi senza parlare con nessuno.
Quello che è successo quella notte faccio un po’ di fatica a raccontartelo, Caterina. Ma tu adesso sei al di sopra delle passioni e delle miserie umane, per te non sono altro che piccolezze prive di significato, ormai. Io invece sono ancora molto turbato.
Insomma, è andata così: quella notte, mentre io ero già a letto e cercavo di addormentarmi, Nicola bussò alla mia porta ed entrò. Veniva dalla doccia e aveva addosso solo il telo da bagno sui fianchi. Gli chiesi, piuttosto stupito, se gli serviva qualcosa. Lui lasciò cadere l’asciugamano e venne verso di me. Non so perché l’abbia fatto, Caterina: forse perché si era sentito troppo solo, forse perché lo aveva colto il panico pensando all’ignoto che lo aspettava, forse perché con quei suoi occhi chiari mi aveva letto dentro un’inclinazione che avevo da sempre e che ero riuscito a nascondere anche a me stesso, forse voleva dimostrami in quel modo la sua gratitudine.
E io l’ho accolto nel nostro letto. Non riesco a spiegarti perché l’ho fatto, Caterina. È molto difficile. Forse era l’amore che ho sempre nutrito per il bello in tutte le sue forme, forse era l’attrazione di un vecchio per la giovinezza… so solo che nel suo corpo, nel suo viso, io ho visto d’un tratto tutta la bellezza del mondo, tutta la forza della natura, tutto il vigore della gioventù, tutto lo slancio verso un futuro ancora da vivere. E in quegli occhi che mi guardavano c’era tutta la passione, la gioia di darsi e di ricevere, la sincerità, l’innocenza, la malizia… c’era la vita. Credimi, Caterina, non è stato come tra noi due: mentre lasciavo che mi accarezzasse, mentre lo accarezzavo, era come se accarezzassi te, il figlio che non abbiamo mai avuto, la primavera, la mia giovinezza lontana, la vita che giorno dopo giorno se ne sta andando. Ed era come se da quel contatto traessi una linfa di vita anch’io.
Il mattino seguente mi svegliai molto prima di lui, che aveva da recuperare altre notti di sonno perduto. Rimasi a lungo a guardare il suo viso, gli occhi che si muovevano sotto le palpebre chiuse: chissà che cosa stava sognando. Dentro di me riecheggiavano ancora le profonde emozioni vissute in quella notte, ma io ero del tutto impreparato a quell’onda di vita che all’improvviso mi si era rovesciata addosso: passione, odio, fughe, vendette, inquietudine… perché Nicola è anche tutto questo.
Dentro di me sentii nascere una paura sorda: non certo per la mia incolumità, se gli uomini di don Carmelo fossero arrivati fino a noi. No, era la paura di cambiamenti ignoti e non gestibili, dell’irruzione del disordine nella mia esistenza tranquilla, era la certezza che avrei dovuto soffrire. Da tutte queste sensazioni scaturiva un malessere quasi fisico, un’ansia che mi sembrava di non poter sopportare per un solo minuto di più.
Quando Nicola si svegliò, gli chiesi di lasciare la casa quel giorno stesso. Gli offrii del denaro per poter soggiornare in qualche pensione prima di abbandonare la Sicilia, e gli lasciai il mio numero di telefono per potermi rintracciare in caso di assoluta necessità.
Lui non chiese spiegazioni: mi ringraziò e accettò un po’ di soldi – molti meno di quelli che gli avevo offerto… – solo per il biglietto del treno e un paio di panini per i primi giorni sul continente.
— Addio, preside, non so come ringraziarti. Chissà se ci rivedremo ancora.
Dopo la doccia, il preside Carmine di Maggio andò in cucina e mise la pentola sul fuoco, poi si sedette in poltrona con in mano il giornale, in attesa che l’acqua per gli spaghetti bollisse, con Titti accovacciata sulla pancia, ma non capiva neanche una riga di quanto stava leggendo: pensava che forse anche quella volta il treno l’aveva perso, che si era lasciato sfuggire tra le dita l’ultima occasione di amare, di gioire, di soffrire, insomma di vivere, fosse stato solo per pochi giorni o per tutta la vita.
Pensò con un filo di speranza che Nicola il suo numero l’aveva, che forse lo avrebbe chiamato.
Ma ormai il treno era partito e il telefono non squillò.
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